cicciogia
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sabato 25 maggio 2013
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ho visto la grande bellezza...
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Jep Gambardella è un giornalista di costume, uno scrittore, un tuttologo, un uomo cinico e sentenzioso che a sessantacinque anni “non vuole più fare le cose che non ha voglia di fare”. È un mondano, conosce tutti, e nonostante tutti conoscano lui, è un uomo solo, spezzato, interrotto, un uomo che passeggia per le vie di una Roma che riesce ancora a guardare con stupore, rancore, distacco e viscerale identificazione.
Con una fotografia sontuosa e barocca, un cast eccezionale (su tutti Servillo, ottimi Verdone, Ferilli e Buccirosso, strepitoso Herlitzka), con una colonna sonora azzeccatissima e un virtuoso movimento di macchina, il nuovo film di Sorrentino strega gli occhi, realizzando un’opera corale, raccontando un universo di personaggi, tutte comparse, compreso il protagonista, di un mondo disfatto, decadente, quasi funereo, ma tanto affascinante, attraente e superbo.
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Jep Gambardella è un giornalista di costume, uno scrittore, un tuttologo, un uomo cinico e sentenzioso che a sessantacinque anni “non vuole più fare le cose che non ha voglia di fare”. È un mondano, conosce tutti, e nonostante tutti conoscano lui, è un uomo solo, spezzato, interrotto, un uomo che passeggia per le vie di una Roma che riesce ancora a guardare con stupore, rancore, distacco e viscerale identificazione.
Con una fotografia sontuosa e barocca, un cast eccezionale (su tutti Servillo, ottimi Verdone, Ferilli e Buccirosso, strepitoso Herlitzka), con una colonna sonora azzeccatissima e un virtuoso movimento di macchina, il nuovo film di Sorrentino strega gli occhi, realizzando un’opera corale, raccontando un universo di personaggi, tutte comparse, compreso il protagonista, di un mondo disfatto, decadente, quasi funereo, ma tanto affascinante, attraente e superbo.
La grande bellezza non ha una trama, non parla di fatti, parla (con le immagini) di sensazioni, di sentimenti contrastanti, parla del vuoto, del nulla e dell’architettura su cui esso si regge.
È un colpo di cannone, una macchina fotografica che immortala la skyline della città immortale, un volo a pelo d’acqua su una trasparente fontana, che riflette le monumentali e misere macerie della capitale, macerie millenarie e moderne, macerie architettoniche e umane.
La cinepresa ritrae, con la dolcezza di un acquerello e con la violenza di uno strappo alla tela, l’avventura di un luogo, di un posto che è anche un’identità, di un posto che è “l’apparato umano” che lo abita.
Sorrentino racconta Roma, che è un coro di volti, di corpi, di rughe, di rimpianti, di sogni infranti, di ipocrisie, di mostri che si nutrono di una bellezza pulsante, una bellezza radicata ma evanescente, una bellezza così potente che schiaccia e che viene schiacciata.
Tra volgari feste mondane e incantevoli sculture senza tempo, tra grotteschi ritocchi al botox e i passi lieti dei bambini, tra le menzogne e i dolci ricordi della giovinezza, tra un millantato impegno civile e un mistico silenzio su ciò “che non si può raccontare ma solo vivere”, tra questi opposti si costruisce un cosmo, si concilia l’inconciliabile, si innesca un meccanismo amaro ed esilarante, si accerta e si accetta una perdita, si ambisce a ritrovare o ricostruire.
La grande bellezza è un pugno allo stomaco, è una dolce carezza, è una lacrima, è uno sguardo, è un ammiccamento, è un rumore feroce, è un’illusione.
La grande bellezza è Roma, è l’Italia, o meglio ancora, gli italiani.
Francesco Giamblanco.
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[+] concordo pienamente!!!
(di virginiavve)
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(di derriev)
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[+] il film si presta a diverse interpretazioni
(di angelo bottiroli - giornalista)
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(di luca b.)
[ - ] non concordo quasi in nulla.
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pr.rugarli
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venerdì 21 giugno 2013
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un quasi capolavoro
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Un film bellissimo che sarebbe potuto essere un capolavoro se non fossero scappate alcune sbavature, alcune piccole cadute di tensione e di livello, che però, forse, sono volute proprio a significare il sincretismo tra alto e basso che è uno dei temi del film. Scartata la lettura più superficiale come sostanzialmente fuorviante, un film sul decadimento morale e civile di una Nazione, o un film che metta in scena animandole le foto di Dagostino su cafonal, il film, ad una più attenta lettura, è la rappresentazione disarmata e disarmante della confusione, fragilità, inconcludenza e sostanziale inutilità di qualsiasi "idolo" da noi inventato per rendere più sensata e sopportabile uno stato di fatto che non può essere guardato direttamente perché è spaventoso e indicibile.
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Un film bellissimo che sarebbe potuto essere un capolavoro se non fossero scappate alcune sbavature, alcune piccole cadute di tensione e di livello, che però, forse, sono volute proprio a significare il sincretismo tra alto e basso che è uno dei temi del film. Scartata la lettura più superficiale come sostanzialmente fuorviante, un film sul decadimento morale e civile di una Nazione, o un film che metta in scena animandole le foto di Dagostino su cafonal, il film, ad una più attenta lettura, è la rappresentazione disarmata e disarmante della confusione, fragilità, inconcludenza e sostanziale inutilità di qualsiasi "idolo" da noi inventato per rendere più sensata e sopportabile uno stato di fatto che non può essere guardato direttamente perché è spaventoso e indicibile. Essere al mondo senza conoscerne la ragione, sapere che la nostra vita ha un termine, cercarne inutilmente un senso. I derelitti che popolano questo bellissimo film, anche se applicati ad esercizi di stile a noi magari sconosciuti, siamo noi, siamo tutti noi.
Unico lenimento a questa sofferenza continua, è la ricerca della bellezza, della purezza, che viene sempre però ad essere alternata al lercio, giacché noi dal lercio e dal fango non possiamo e non sappiamo liberarci. E allora mentre qualcuno cerca di stordirsi con la cocaina ed altri col sesso, o magari per grandi cause o ideali, la povertà, il lenimento della sofferenza altrui, qualcuno, forse più coraggioso, o forse più disperato, trova nel suicidio l'unica possibile via di uscita.
Consiglio di vedere il film quando la sala è semivuota per non farselo rovinare dalle risate ingannatrici del pubblico più rozzo.
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filippo catani
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domenica 2 giugno 2013
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un capolavoro cinico e poetico allo stesso tempo
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Jep Gambardella ha raggiunto il traguardo dei 65 anni d'età. L'uomo vive ormai da anni a Roma dove si era trasferito a seguito del successo ottenuto con il suo primo e unico romanzo intitolato l'Apparato umano. Nel corso degli anni, per sua stessa ammissione, Jep ha perso la vena artistica e si è dedicato a diventare il re della mondanità attorniato da una serie di personaggi improbabili. Il disincanto e una certa noia per la vita che conduce e la morte del suo primo amore lo porteranno a guardare dentro e fuori di se alla ricerca della grande bellezza.
Ecco per sommi capi questa è la trama di un film che non si gioca tanto nel suo svolgimento ma soprattutto nelle sue immagini e dialoghi.
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Jep Gambardella ha raggiunto il traguardo dei 65 anni d'età. L'uomo vive ormai da anni a Roma dove si era trasferito a seguito del successo ottenuto con il suo primo e unico romanzo intitolato l'Apparato umano. Nel corso degli anni, per sua stessa ammissione, Jep ha perso la vena artistica e si è dedicato a diventare il re della mondanità attorniato da una serie di personaggi improbabili. Il disincanto e una certa noia per la vita che conduce e la morte del suo primo amore lo porteranno a guardare dentro e fuori di se alla ricerca della grande bellezza.
Ecco per sommi capi questa è la trama di un film che non si gioca tanto nel suo svolgimento ma soprattutto nelle sue immagini e dialoghi. Sicuramente l'istantanea che esce dalla macchina di Sorrentino è lontana miliardi di anni luce da quella favoleggiante tratteggiata poco tempo fa da Woody Allen nel suo To Rome with love ma d'altra parte gli intenti dei due registi non potrebbero essere più agli antipodi di così. Il film è semplicemente straordinario. Questo effetto si ottiene con una perfetta miscela di diversi ingredienti. Partiamo dal cinismo che attraversa grandi parti del film e questo lo possiamo vedere tra gli stacchi di immagini che ci regala il regista. Rimaniamo infatti ammirati dalle bellezze romane viste all'alba (siano il Colosseo piuttosto che il Gianicolo) e subito dopo eccoci catapultati ad una sguaiata festa popolata da personaggi più o meno improbabili. Così come lo sono gli "amici" di cui si circonda il protagonista Jep: si va dallo sceneggiatore di teatro che non ha mai visto decollare la sua carriera e che per giunta si fa sfruttare dalla donna di cui è innamorato, c'è la radical chic, il venditore di giocattoli dalla parlantina infinita. E' pero Servillo con i suoi dialoghi e con la sua voce fuori campo a recitare la parte del leone e ha confermarsi l'attore migliore di cui disponiamo al momento in Italia. Fantastica l'intervista all'artista ispirata dalle vibrazioni (bellissima la presa in giro di tante interviste del genere con Jep a chiedere insistentemente cosa siano queste vibrazioni) così come splendidio è il momento in cui abbandona la donna che voleva mostrargli le sue foto su facebook (a 65 anni non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare). Allo stesso tempo è terribile nello smascherare i difetti di una donna del gruppo e non esita a definirsi non solo misogino ma misantropo perchè quando si odia bisogna avere la massima ambizione. Però, e quì veniamo alla vena poetica del film, Jep sta cercando alcune risposte al senso della vita e sono molto intense le scene in cui ripensa alla prima ragazza che ha amato e che è stata anche l'unica ad avere veramente amato (le altre sono state donne più o meno dozzinali). La suora Santa che farà la comparsa alla fine cercherà di regalare un po' uno spiraglio di luce e di meravigliose frasi alla pletora formata da Gambardella e soci (la povertà si vive, mangio sempre le radici perchè le radici sono la cosa più importante) in netta contrapposizione al cardinale in odore di soglio pontificio con la fissa delle ricette (una vera macchietta). Insomma un variegato spaccato della Roma attuale che però lascia qualche speranza sul finale. Detto di Servillo anche Sorrentino si conferma regista di assoluta qualità poi molto bene Verdone mentre invece l'unica cosa che non funziona nel film è una Ferilli dalla recitazione piatta e quasi fuori ruolo poi ci sono un sacco di comparsate anche di volti del passato. Insomma tutti noi dobbiamo cercare le nostre risposte e la nostra grande bellezza nelle nostre origini, nella nostra famiglia ma soprattutto dobbiamo cercare di andare alla profondità delle cose senza lasciarci distogliere dal chiacchiericcio e dal blablablabla di fuori.
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nelson corallo
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mercoledì 19 giugno 2013
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lo spreco di cultura
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Il film di Paolo Sorrentino "La grande bellezza" si può riassumere con quattro parole: lo spreco di cultura. La cultura del protagonista, Jep Gambardella, scrittore che vive della rendita del suo unico romanzo, pubblicato quando aveva 25 anni, e la cultura della città di Roma, abitata da uomini e donne invecchiati male, marci e pure un po' stronzi. Sorrentino impiega un film intero per svelare al pubblico che quando non si ha il coraggio di rimettersi in gioco si è condannati a ripensare eternamente a quell'amore che appartiene ormai al ricordo di una giovinenezza lontana. Jep Gambardella - Tony Servillo - viaggia tra le feste sulle terrazze vista Colosseo, le strade della città all'alba, i locali svuotati della "Dolce Vita" di Fellini, i giardini delle ville borghesi, le persone grette di cui si è contornato e i propri pensieri senza trovare null'altro che se stesso, amareggiato e protetto dal proprio sublime cinismo.
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Il film di Paolo Sorrentino "La grande bellezza" si può riassumere con quattro parole: lo spreco di cultura. La cultura del protagonista, Jep Gambardella, scrittore che vive della rendita del suo unico romanzo, pubblicato quando aveva 25 anni, e la cultura della città di Roma, abitata da uomini e donne invecchiati male, marci e pure un po' stronzi. Sorrentino impiega un film intero per svelare al pubblico che quando non si ha il coraggio di rimettersi in gioco si è condannati a ripensare eternamente a quell'amore che appartiene ormai al ricordo di una giovinenezza lontana. Jep Gambardella - Tony Servillo - viaggia tra le feste sulle terrazze vista Colosseo, le strade della città all'alba, i locali svuotati della "Dolce Vita" di Fellini, i giardini delle ville borghesi, le persone grette di cui si è contornato e i propri pensieri senza trovare null'altro che se stesso, amareggiato e protetto dal proprio sublime cinismo. Ma la cultura, la stessa di cui si serve per inchiodare i propri simili alle loro vite vuote, Jep Gambardella non la usa nè a favore nè contro se stesso. "La grande bellezza" allora parla di un protagonista vigliacco, incapace di evolvere nonché incapace di arrivare al termine della notte Celiniana, citata all'inizio del film. Ecco, la stessa citazione iniziale è un pretesto per dire al pubblico: "Questo romanzo l'ho letto solo io, voi non potete capire. A voi non resta che perdervi tra le immagini, inseguendo i miei simboli, uscendo dalla sala con uno strano senso di disagio". La pellicola di Sorrentino ha valore filmico e registico, senz'altro, ma il messaggio in essa contenuto è volutamente nascosto poiché fa troppo male. Jep Gambardella è la metafora di tutti coloro che hanno rinunciato a trovare la bellezza, nonostante fingano di cercarla tanto bene. Il resto sono immagini lussuose, oniriche, felliniane appunto. In sostanza dovrebbe dirlo Sorrentino, a noi, che cosa volesse esprimere con questo film. Dovremmo essere seduti davanti a lui per intervistarlo, come fa Jep con un'artistoide fricchettona, domandandogli una spiegazione concreta. E lui, Sorrentino, non potrebbe di certo risponderci che si tratta di "vibrazioni"...
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scoop
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martedì 11 giugno 2013
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una vera bellezza
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Decadentismo. Questa è la parola più appropriata da utilizzare per spiegare il significato del nuovo film di Paolo Sorrentino La grande bellezza. Jep è alla ricerca della bellezza, come ogni uomo su questa Terra; non si tratta di estetica, di materia, ma solo di spirito e di libertà. Una libertà che non ha nulla a che vedere col decidere a quale nuova festa si parteciperà, quale nuovo posto si visiterà, quale nuovo viaggio si farà, ma che riguarda esclusivamente l'animo.
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Decadentismo. Questa è la parola più appropriata da utilizzare per spiegare il significato del nuovo film di Paolo Sorrentino La grande bellezza. Jep è alla ricerca della bellezza, come ogni uomo su questa Terra; non si tratta di estetica, di materia, ma solo di spirito e di libertà. Una libertà che non ha nulla a che vedere col decidere a quale nuova festa si parteciperà, quale nuovo posto si visiterà, quale nuovo viaggio si farà, ma che riguarda esclusivamente l'animo.
Così comincia il percorso catartico di Jep.
Jep può essere definito anche un uomo kierkegaardiano. Secondo il filosofo esistenzialista Kierkegaard l'uomo compie tre stadi per arrivare alla sua dimensione interiore: vita estetica (quella di Jep a Roma), vita etica (l'amicizia di Jep con Ramona, una spogliarellista quarantenne gravemente malata) e vita religiosa (l'incontro con "La Santa", una suora missionaria). Questa ascesi dalla mondanità ai valori rende Jep un eroe decadente: egli vive nell'estetismo della sua ricca vita, ma anche nel superomismo quando aspira a diventare il re dei mondani. Il film ha per protagonista un novello Dorian Gray, un dandy alla ricerca della pura bellezza che ritrova, a differenza di Jep, in un volto fisico.
Le scene che compongono il film sembrano non avere collegamento logico tra di loro, talvolta hanno come protagonista Jep, talvolta vedono protagonisti altri personaggi con le loro vicende personali; Sorrentino riesce proprio in questo modo apparentemente sconnesso a dare l'impressione del flusso incessante della vita, delle vicissitudini umane, dei pensieri e delle menzogne che popolano la nostra esistenza.
"E' tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura... gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile"
Alla fine Jep avrà l'opportunità di comprendere: "La Santa", suor Maria, è una missionaria che fa eco a suor Maria Teresa di Calcutta. Solo osservando la sua totale comunione con la natura, la sua devozione per ogni creatura vivente e la sua fede indistruttibile, Jep comprenderà il segreto della grande bellezza, qualcosa che va oltre tutto ciò che circonda i comuni esseri umani, ma che ha a che fare col loro lato immortale.
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angelo umana
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venerdì 24 maggio 2013
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società in disfacimento
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All’ammirazione di Roma silenziosa ed estasiata di un gruppo di turisti giapponesi, uno dei quali muore fotografando e col sorriso davanti a questa beltà (“vedi Napoli e poi muori” vale anche per Roma dunque) e alla sacralità del canto solenne di un coro femminile, si contrappongono le successive immagini di una festa “di grido” in una terrazza romana, sullo sfondo della pubblicità luminosa “Martini” (famosa terrazza essa stessa). Il padrone di casa e anfitrione è Jep (Servillo), navigato viveur e re della mondanità, uno che sembra aver visto tutto, disilluso e cinico, capace di organizzare eventi mondani ma, dice, soprattutto col potere di non darvi luogo.
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All’ammirazione di Roma silenziosa ed estasiata di un gruppo di turisti giapponesi, uno dei quali muore fotografando e col sorriso davanti a questa beltà (“vedi Napoli e poi muori” vale anche per Roma dunque) e alla sacralità del canto solenne di un coro femminile, si contrappongono le successive immagini di una festa “di grido” in una terrazza romana, sullo sfondo della pubblicità luminosa “Martini” (famosa terrazza essa stessa). Il padrone di casa e anfitrione è Jep (Servillo), navigato viveur e re della mondanità, uno che sembra aver visto tutto, disilluso e cinico, capace di organizzare eventi mondani ma, dice, soprattutto col potere di non darvi luogo. Ha 65 anni e ha scoperto che non deve perder tempo con le cose per cui non ha interesse; un uomo pieno di disincanto, domina quel “circo” ma allo stesso tempo lo disprezza. Il circo è di persone alla ricerca disperata di divertimento, di notorietà, che nei balli fanno “trenini che non vanno da nessuna parte”. La fauna che popola le feste sembra soprattutto carne, esibita e donata, di corpi anche belli oppure decrepiti, tutti sotto le luci diventano maschere grottesche, protese alla ricerca incolmabile del piacere e di piacere.
E’ chiaro che Jep è ormai distante da questo glamour che ha creato - “alla mia età una bella donna non è più abbastanza” - sembra cercare una spiritualità che il frastuono ha coperto, ma la vacuità del circo è evidente, l’insoddisfazione permanente della fauna umana che si esibisce, vuota di senso e di rapporti sinceri. Ha curiosità di una vita normale, lui che sorseggia brandy continuamente e va a dormire quando altri si svegliano; chiede a una coppia ordinaria “cosa fate stasera?” e sembra avere il desiderio di starsene a casa davanti alla televisione, come quei due. Una nuova amica 42enne di Jep ha le magnifiche fattezze della Ferilli, esibite in spogliarelli che le servono per curarsi da un male; lei dice “non sono portata per le cose belle”, ma l’umanità che ha attorno non ha nulla di bello o di meritevole, intorno c’è una decadenza che le bellezze di Roma o le magnifiche immagini (come un volo di aironi o le scie di aerei nel cielo azzurro) non possono redimere. “Vite devastate” ma anche depravate, inconsistenti, vite finte, rapporti inutili, volti disfatti in un Paese di “debosciati”, fanno pensare a quelle navi senza più governo che vagano alla deriva, con gli occupanti che, inconsapevoli, spendono il tempo come sempre.
Un film monumentale, dei monumenti di cui è ricca Roma e dei magnifici palazzi, ma anche dei numerosissimi personaggi che lo arricchiscono e che sembrano rappresentare la nostra società, dove “per farsi prendere sul serio, bisogna prendersi sul serio”, pratica molto diffusa nella nostra realtà di “popolo di intervistati”. Il vuoto e l’apparenza come stile di vita o come fede, che però non appaga le ansie. Il misterioso vicino di casa di Jep, occupa l’appartamento con terrazza sopra di lui, si scopre che è un latitante e si definisce “uno che porta avanti il Paese”, che sarà anche vero a modo suo, in un Paese in rovina. C’è il cardinale (Herlitzka), in odore di papato, che salvo la veste non ha differenze dagli invitati di questa insulsa società, dove anche lui cerca gaudio magno. Una decrepita e improbabile “santa” è invitata a una cena da Jep per raccogliere fondi per i poveri, è la 104enne suor Maria, che si dice viva in un paese africano e che dorme per terra, percorre in ginocchio con dolori indicibili la “scala santa” e vien da chiedersi a cosa possano servire i voti e le penitenze della religione ad una umanità che non vuole saperne. Jep, che è pure giornalista, vorrebbe intervistarla ma la santa gli dice che “la povertà non si racconta, si vive”. Un ciarlatano inocula botulino ai famosi che, in attesa del loro turno, letteralmente popolano il suo loft, a 700 euro al colpo.
Un parterre de rois di attori che si rendono benissimo verosimiglianti alla realtà che Sorrentino descrive, magnifiche interpretazioni di ognuno con Servillo, Verdone e Ferilli che sono i personaggi più vicini ad una forma introspettiva, umana, con l’apparizione sporadica (e inspiegabile) di Venditti e perfino di “madame Fannie Ardant”, figure che appaiono una notte di sfuggita. La “santa” chiede a Jep perché non ha scritto più libri dopo l’unico famoso che produsse molti anni prima: lui risponde che cercava “la grande bellezza” ma non l’ha trovata, e questa è una verità incontrovertibile guardando cosa lo attornia, un ambiente che lui stesso ha inseguito. Il suo bisogno di ritrovarsi sembra farsi strada quando rivede le sue radici, il mare e il ricordo della ragazza che conobbe a 18 anni. Un Sorrentino geniale, come sempre.
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tiamaster
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venerdì 28 giugno 2013
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roma,tra bellezza e squallore
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Dopo l'America di "this must be the place", la svizzera de "le conseguenze del'amore" , la Napoli del "amico di famiglia" e i palazzi del potere de "il divo", Paolo Sorrentino, uno dei registi italiani più interessanti in assoluto ci porta a Roma per narrarcene bellezze e squallori.Il film è un quasi-capolavoro.Nel senso che il regista era vicino a regalarci uno dei film italiani più belli degli ultimi anni.Ma fallisce per una serie di piccoli errori.Personaggi inutili (Verdone e la quasi totalità dei personaggi secondari) o ancora peggio imbarazzanti (Il prete) e anche per la struttura narrativa a "episodi", che si nota specialmente nella seconda parte.
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Dopo l'America di "this must be the place", la svizzera de "le conseguenze del'amore" , la Napoli del "amico di famiglia" e i palazzi del potere de "il divo", Paolo Sorrentino, uno dei registi italiani più interessanti in assoluto ci porta a Roma per narrarcene bellezze e squallori.Il film è un quasi-capolavoro.Nel senso che il regista era vicino a regalarci uno dei film italiani più belli degli ultimi anni.Ma fallisce per una serie di piccoli errori.Personaggi inutili (Verdone e la quasi totalità dei personaggi secondari) o ancora peggio imbarazzanti (Il prete) e anche per la struttura narrativa a "episodi", che si nota specialmente nella seconda parte. Ma i pregi superano di gran lunga i difetti.La fotografia straordinaria, in stato di grazia, le scenografie da paura e le interpretazioni di tutto il cast aumentano non poco la qualità del prodotto finale.Ma ciò che colpisce è la regia:dal punto di vista registico, la grande bellezza è il miglior film di Sorrentino e uno dei migliori di quest anno.La scena del party iniziale, da sola, vale il prezzo del biglietto:girata IMPECCABILMENTE, coreografata in modo PAUROSO è la più importante del film:ci intoduce al ambiente in cui è ambientato il film e al personaggio di Jep, che avrà un entrata in scena memorabile.Film enorme a livello tecnico è contenutistico, è il miglior film italiano dell'anno.
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jacopo b98
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domenica 26 maggio 2013
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un servillo magistrale ed un film bellissimo
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Gep Gambardella (Servillo) è un giornalista, ha sessantacinque anni e vive a Roma. Personalità influente e di grande fascino, conosciuto da tutti per le sue sfarzose feste e per un libro da alcuni considerato un capolavoro, da altri un’opera mediocre. Pian piano, passeggiando solo o in compagnia in una città vuota e bellissima comprenderà quanto la sua vita sia vuota ed inutile. Sesto film del geniale Sorrentino, forse il migliore dopo Il divo (2008), scritto dal regista con Umberto Contarello. È la storia apparentemente felice, raccontata con toni da commedia italiana, di un uomo triste e malinconico, incarnato da un Servillo magistrale, in quella che forse è la sua migliore interpretazione.
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Gep Gambardella (Servillo) è un giornalista, ha sessantacinque anni e vive a Roma. Personalità influente e di grande fascino, conosciuto da tutti per le sue sfarzose feste e per un libro da alcuni considerato un capolavoro, da altri un’opera mediocre. Pian piano, passeggiando solo o in compagnia in una città vuota e bellissima comprenderà quanto la sua vita sia vuota ed inutile. Sesto film del geniale Sorrentino, forse il migliore dopo Il divo (2008), scritto dal regista con Umberto Contarello. È la storia apparentemente felice, raccontata con toni da commedia italiana, di un uomo triste e malinconico, incarnato da un Servillo magistrale, in quella che forse è la sua migliore interpretazione. È quindi un film apparentemente calmo e disteso, eppure di grande tristezza e malinconia. La Roma di Sorrentino è bella? Sì, è la più bella Roma mai vista al cinema, ripresa dal regista con inquadrature grandiose, che testimoniano il suo strepitoso talento nella scelta delle inquadrature: fa vedere una fontana vera, e sembra che stia facendo vedere un set da milioni di dollari. È quindi un film grandioso e bellissimo, ma in fondo solo fittizio: il titolo iniziale dove appare? Lontano, dietro le case, un titolo che riporta ad una bellezza assoluta ed inafferrabile. Ma è una grande bellezza o una grande bruttezza? Questa è la domanda di un film complesso, lungo (fin troppo?) ed ambizioso, che racconta di una Roma malata e in fondo così infelice, mascherata dietro un’ombra invalicabile di bellezza e perbenismo. Così appare la grande bellezza di cui parla Sorrentino, che si prende due ore e mezzo per raccontarcelo, realizzando un film dilatato, peraltro giustamente, con alcuni momenti di reale incanto: Servillo che passeggia per le strade, solo e profondamente infelice, accompagnato solo dalla sua sconfitta voce narrante, che descrive un personaggio solo apparentemente semplice: alle feste, in società ride, beve, si ubriaca, fa sesso, ma quando è solo riflette, pensa e soffre: unico a rendersi conto del fallimento di un sogno, un italian dream folle e sciocco. E poi c’è il personaggio, bellissimo e ben interpretato, di Verdone, deluso da Roma, come dice a Gep nel finale. Merita i complimenti anche la Ferilli, che delinea un personaggio non scontato e piuttosto interessante. Splendida fotografia di Luca Bigazzi, strepitosa colonna sonora di Lele Marchitelli, che abbina brani di musica classica a canzoni moderne. Tre cameo importanti: Lillo De Gregorio, Fanny Ardant e Antonello Venditti
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[+] un eccellente esercizio di stile
(di amedex)
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enrico omodeo sale
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mercoledì 29 maggio 2013
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un ritratto corale di 1 borghesia in disfacimento
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Un film che contiene molto metatesto, un film da (ri)vedere. Una storia senza storia, un ritratto corale di una società borghese in pieno disfacimento psicofisico, perfettamente simboleggiata da Serena Grandi e dalla scena surreale delle iniezioni di botulino. La devastazione è talmente grande che l'unico personaggio è il protagonista Jeb Gambardella, mentre tutti gli altri sono macchiette scure che ruotano attorno al grande re della mondanità romana. Solo Verdone e la Ferilli nascondo un lato umano, tutto il resto è un trenino urlante che non va in nessun posto. Sorrentino pecca solo di eccesso di freddezza (che non favorisce processi di identificazione) e di una lieve esagerazione negli sfondi da cartolina (splendida fotografia di Bigazzi), ma forse tutto è studiato per creare un fastidio catartico nello spettatore.
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Un film che contiene molto metatesto, un film da (ri)vedere. Una storia senza storia, un ritratto corale di una società borghese in pieno disfacimento psicofisico, perfettamente simboleggiata da Serena Grandi e dalla scena surreale delle iniezioni di botulino. La devastazione è talmente grande che l'unico personaggio è il protagonista Jeb Gambardella, mentre tutti gli altri sono macchiette scure che ruotano attorno al grande re della mondanità romana. Solo Verdone e la Ferilli nascondo un lato umano, tutto il resto è un trenino urlante che non va in nessun posto. Sorrentino pecca solo di eccesso di freddezza (che non favorisce processi di identificazione) e di una lieve esagerazione negli sfondi da cartolina (splendida fotografia di Bigazzi), ma forse tutto è studiato per creare un fastidio catartico nello spettatore. Uno sguardo amaro sulla solitudine da metropoli, dove le comunità sono effimere e in guerra, dove l'io non diventa mai noi, e se lo diventa, come nei ricordi di uno dei personaggi che evoca la Roma sessantottina, viene subito massacrata dalla verità cinica di Jab, che riscopre sè stesso solo nel rapporto con la Ferilli: "M'ero scurdato cosa voleva dire volere bene", le dirà dopo una notte passata insieme. Echi felliniani, rappresentati dalla scena della giraffa, mostrano una Roma poetica e allo stesso tempo "baraccona", segreta e ambigua (come il sacerdote cuoco Herlitzka). Nel finale qualche forzatura di troppo (il flashback del primo amore di Jab), subito dimenticata grazie al personaggio della suora centenaria (che vive la povertà senza raccontarla) e al monologo finale che spiega la filosofia di vita di Jab, forse l'unico vero romano nonostante l'accento partenopeo: ""È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile." Forse qui incomincia il libro mai iniziato dal protagonista, che più di tutti riesce a vedere "la grande bellezza"
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omero sala
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martedì 23 luglio 2013
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viaggio al termine della notte
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Si esce dalla sala con la sensazione ubriaca di aver assistito ad un esercizio di stile accumulatorio e debordante, barocco-partenopeo, sconnesso e ogni tanto surreale, pretenziosamente disorganico ed esagerato, troppo saturo, troppo intenso, troppo tutto.
Ma poi ci si pensa e nasce il sospetto che sia il troppo, appunto, (ed il vuoto) a costituire l’essenza del film.
Jep Gambardella (Toni Servillo) è un ex-romanziere che come Salinger vive di rendita per un successo giovanile che lo ha immesso nel giro della “bella” società romana, piccolo-borghese e pseudo-intellettuale.
Ha però sessantacinque anni suonati e si ritrova stanco e disincantato a consumare giornate assurde, bazzicando una cinica microsocietà di ex come lui (o quasi ex) che tamponano le diverse decadenze con la smania d’esserci, camuffano il vuoto sotto le maschere avvizzite di se stessi, esorcizzano l’anonimato come la morte, si eccitano di eccentricità quotidiane, si alimentano bulimicamente di voglie consunte, escogitano consuetudini per fuggire la noia delle consuetudini, costruiscono occasioni per uscire e fingono di vivere per non vedere la devastazione che dentro li disgrega, fra feste freacks con trenini cafonal e sniffo, vernissage radical chic e cene in piedi, escort e madri teresedicalcutta, shopping compulsivi e funerali eccentrici, celebrazioni della subcultura e allucinazioni èlitarie, in un cicaleccio continuo, maligno e inconcludente, inutilmente caustico.
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Si esce dalla sala con la sensazione ubriaca di aver assistito ad un esercizio di stile accumulatorio e debordante, barocco-partenopeo, sconnesso e ogni tanto surreale, pretenziosamente disorganico ed esagerato, troppo saturo, troppo intenso, troppo tutto.
Ma poi ci si pensa e nasce il sospetto che sia il troppo, appunto, (ed il vuoto) a costituire l’essenza del film.
Jep Gambardella (Toni Servillo) è un ex-romanziere che come Salinger vive di rendita per un successo giovanile che lo ha immesso nel giro della “bella” società romana, piccolo-borghese e pseudo-intellettuale.
Ha però sessantacinque anni suonati e si ritrova stanco e disincantato a consumare giornate assurde, bazzicando una cinica microsocietà di ex come lui (o quasi ex) che tamponano le diverse decadenze con la smania d’esserci, camuffano il vuoto sotto le maschere avvizzite di se stessi, esorcizzano l’anonimato come la morte, si eccitano di eccentricità quotidiane, si alimentano bulimicamente di voglie consunte, escogitano consuetudini per fuggire la noia delle consuetudini, costruiscono occasioni per uscire e fingono di vivere per non vedere la devastazione che dentro li disgrega, fra feste freacks con trenini cafonal e sniffo, vernissage radical chic e cene in piedi, escort e madri teresedicalcutta, shopping compulsivi e funerali eccentrici, celebrazioni della subcultura e allucinazioni èlitarie, in un cicaleccio continuo, maligno e inconcludente, inutilmente caustico.
Ai margini di questo universo alla deriva spuntano, rare e marginali, figure quasi “normali” (Ferilli e Verdone, per esempio), capaci di residue emozioni, che nella loro candida ingenuità appaiono però patetiche quanto gli schizzati che le circondano.
Jep è vagamente consapevole della sua incompiutezza e del declino: per sopravvivere alla disperazione dell’innegabile vecchiezza e dell’impossibile rigenerazione si rifugia nella nostalgia di un flashback adolescente; sa – innanzitutto – che non ha più nulla da scrivere; e sa che per scampare non gli basta quell’eccitazione frenetica che fa durare gli altri (e che lui disprezza senza saperne prendere le distanze): per questo si lascia intridere da un sordo sconforto, attraversa i luoghi dell’inutilità con in corpo una rabbia stanca e non resiste (residuo di coscienza?) all’insopprimibile voglia di scoprire le carte, svelare i trucchi, rompere gli specchi, scoperchiare il fetore degli altri forse anche per annusare masochisticamente il proprio.
Continua a far parte di quel “fracico” mondo, ma si lava la coscienza comportandosi da osservatore esterno, infelice ed annoiato; e si fa entomologo distratto che stuzzica le sue vittime con bisturi ed elettrodi, senza cautele o reticenze, solo per vederne le reazioni, o forse per controllarne la residua vitalità, non certo per trasferire in loro la sua esclusiva ed escludente consapevolezza o per tentare improbabili redenzioni.
La macchina da presa, quando inquadra le persone (o, meglio, i personaggi) è assalita dalla frenesia di invadere visi disfatti e corpi artefatti, di smascherare derive e meschinità, di scrutare vacuità vertiginose e beceraggini; l’obiettivo intrappola i bipedi come topi nel labirinto, colleziona casi patologici come un manuale di psichiatria, fa trapelare il senso di morte; quando invece esplora gli spazi, ricerca lo struggente incanto di angoli nascosti, tramonti immensi e fascinosi, palazzi e chiese, fontane e giardini che fanno da contraltare con la loro “grande bellezza” al brulicume osceno dei parassiti.
Sorrentino insegue in questo film ispirazioni ed ascendenze nobili sia letterarie che cinematografiche.
Fra le pieghe del film si intravvede l’infelice Leopardi col suo sentimento del nulla, Flaubert (per lo stile dispersivo “che fa parlar le cose” ed il tema dello svanire dei sogni), Sartre con la sua ossessione di incompiutezza (“L’essere e il nulla”), Camus per il senso dell’assurdo che incombe e la condizione di alienazione; ed infine il disperato Céline, espressamente citato (“Viaggio al termine delle notte” sarebbe stato un magnifico titolo per questo penoso e magnifico film).
Fra gli autori di cinema a cui Sorrentino si ispira, anche con esplicite citazioni, troviamo Scola (quello de La terrazza che galleggia come il Titanic prima di essere inghiottita dagli abissi, quello che sa scorticare come nessun altro la vacuità degli intellettuali), ma troviamo soprattutto il Fellini – quello de La dolce vita e di Roma – parafrasato nel protagonista (Jep è un Marcello, ancora più vecchio e stanco, più annoiato e disgustato), replicato nel clima di decadenza (qui ai limiti della putrefazione), richiamato nelle inquadrature e nel montaggio, riecheggiato nella galleria dei personaggi bislacchi e grotteschi (suorine, cardinali insignificantemente emaciati, femmine pingui) ed in alcune scene onirico-paradigmatiche (mostri marini, sculture gigantesche, apparizioni di irreali giraffe e inquietanti trampolieri, peregrinazioni notturne).
Una scena paradigmatica: quella estenuante della repellente sfilata dei visi prolassati davanti al chirurgo estetico che impugna la siringa di tossina botulinica, come in un horror di serie b.
Una figura sublime: quella onnipresente e defilata del poeta, ombroso e taciturno.
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