padly
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lunedì 3 giugno 2013
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le radici sono importanti
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La Grande Bellezza di Sorrentino piace o non piace, si ama o non si ama. Di certo non lascia indifferenti. Io l’ho amato fin dalle prime scene. Quando ho capito che dovevo essere una “spugna” per impregnarmi di immagini, musica, emozioni e parole nella rappresentazione - nella forma del “sincretismo” piuttosto che della sintesi logica- di una mondanità becera. E la “sincresi” di Sorrentino è perfetta, tecnicamente e artisticamente. Bella la galleria di personaggi: Romano (Carlo Verdone), scrittore teatrale mai realizzato dipendente da una giovane donna che lo sfrutta, Lello (Carlo Buccirosso) venditore di giocattoli triviale e marito infedele di Trumeau (Iaia Forte), Viola (Pamela Villoresi) ricca borghese con un figlio problematico, Stefania (Galatea Ranzi) cardinali (Roberto Herlitzka) che si intendono di cucina, più che di spiritualità e spogliarelliste dai segreti oscuri (Sabrina Ferilli).
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La Grande Bellezza di Sorrentino piace o non piace, si ama o non si ama. Di certo non lascia indifferenti. Io l’ho amato fin dalle prime scene. Quando ho capito che dovevo essere una “spugna” per impregnarmi di immagini, musica, emozioni e parole nella rappresentazione - nella forma del “sincretismo” piuttosto che della sintesi logica- di una mondanità becera. E la “sincresi” di Sorrentino è perfetta, tecnicamente e artisticamente. Bella la galleria di personaggi: Romano (Carlo Verdone), scrittore teatrale mai realizzato dipendente da una giovane donna che lo sfrutta, Lello (Carlo Buccirosso) venditore di giocattoli triviale e marito infedele di Trumeau (Iaia Forte), Viola (Pamela Villoresi) ricca borghese con un figlio problematico, Stefania (Galatea Ranzi) cardinali (Roberto Herlitzka) che si intendono di cucina, più che di spiritualità e spogliarelliste dai segreti oscuri (Sabrina Ferilli). Il film è un susseguirsi di situazioni in un filo forse illogico (ma, come dice Marcello Marchesi, “la logica è una forma di pigrizia mentale”) per catturare la nostra intelligenza emotiva. Ma la Grande Bellezza ci vuole anche far pensare: all’importanza delle “radici”, alla bellezza delle persone serene che “stirano, bevono un bicchiere di vino rosso e guardano la tv”. E la “spugna”, una volta piena, viene strizzata dall’irrompere di un personaggio chiave la “Santa”, prima quasi grottesca, poi seria e lapidaria: “La povertà non si racconta, si vive”, “Mangio radici perché le radici sono importanti”. Il suo soffio fa partire un gruppo di uccelli in sosta sulla terrazza di Jep Gambardella, in una scena magistrale del film. Le radici sono importanti. Alle radici del cinema italiano c’è Federico Fellini. E Sorrentino lo sa.
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alezietta75
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domenica 13 ottobre 2013
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si deve vedere
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E finalmente un Film, carico, ricco, succoso, che si nutre di contraddizioni: dal surrealismo che sfiora l’onirico alla concretezza più immediata e volgare, senza mai rinunciare al senso dell’estetica, alla profondità del messaggio, alla tentazione verso la poesia… E si serve di tutto: di una cinepresa che cambia di continuo velocità; una colonna sonora che alterna momenti assordanti a melodie sacre; un montaggio ad arte che coinvolge senza mai confondere; di un attore protagonista, Servillo, che dà il meglio di sé, e che trasmette l’alito di vita al personaggio di Jep, tanto da far venire voglia di andarlo a trovare nel suo attico fronte Colosseo; una fotografia che va a scovare il meglio di Roma, il suo fascino nascosto tra i cortili e le strade meno battute; una schiera di personaggi per lo più mascherati, ma che sotto la maschera nascondono quasi sempre la loro nullità, la loro inutilità, i fallimenti delle scelte.
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E finalmente un Film, carico, ricco, succoso, che si nutre di contraddizioni: dal surrealismo che sfiora l’onirico alla concretezza più immediata e volgare, senza mai rinunciare al senso dell’estetica, alla profondità del messaggio, alla tentazione verso la poesia… E si serve di tutto: di una cinepresa che cambia di continuo velocità; una colonna sonora che alterna momenti assordanti a melodie sacre; un montaggio ad arte che coinvolge senza mai confondere; di un attore protagonista, Servillo, che dà il meglio di sé, e che trasmette l’alito di vita al personaggio di Jep, tanto da far venire voglia di andarlo a trovare nel suo attico fronte Colosseo; una fotografia che va a scovare il meglio di Roma, il suo fascino nascosto tra i cortili e le strade meno battute; una schiera di personaggi per lo più mascherati, ma che sotto la maschera nascondono quasi sempre la loro nullità, la loro inutilità, i fallimenti delle scelte...E a che serve una vera trama quando disponiamo di tanti ingredienti ricercati e accattivanti?... C’è il degrado della borghesia, l’ipocrisia della classe intellettuale, la vacuità della cultura dell’immagine, la mediocrità di un certo modo moderno di fare arte, il trionfo della superficialità di fronte alla sconfitta, e alla morte, dell’umanità e dell’amore. Ma c’è la speranza che solo dentro sé stesso, a riflettori spenti, nel chiarore velato e nel silenzio delicato di ogni alba, passeggiando a fianco del lento scorrere del Tevere, troverà ancora una volta un senso. Basta scavare in profondità sotto rumori e chiacchiericci inutili, sotto la pesante freddezza dei bla bla bla.
“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.” dice Jep. Ma perché allora non cominciamo prima?
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stefanosessa
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domenica 2 giugno 2013
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irrecensibile
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''Ho fatto questo film non per puntare il dito, ma per cercare la bellezza e il sentimento dappertutto.''(Paolo Sorrentino)
Gli odiosi trailer che precedono la proiezione sono terminati,il film sembra iniziato.Non vi sono titoli di testa: non sembra neppure un vero e proprio principio, piuttosto sembra che la pellicola si inserisca in un solco già tracciato, agganciandosi ad un discorso già iniziato. Lo sguardo di una telecamera curiosa e fluttuante vaga su paesaggi cittadini per poi spostarsi in una della tante zone archeologiche della capitale.Immancabili giapponesi, guide turistiche e stranieri di ogni dove,una Babele etnico-linguistica in una cosmopoli dalla storia millenaria.
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''Ho fatto questo film non per puntare il dito, ma per cercare la bellezza e il sentimento dappertutto.''(Paolo Sorrentino)
Gli odiosi trailer che precedono la proiezione sono terminati,il film sembra iniziato.Non vi sono titoli di testa: non sembra neppure un vero e proprio principio, piuttosto sembra che la pellicola si inserisca in un solco già tracciato, agganciandosi ad un discorso già iniziato. Lo sguardo di una telecamera curiosa e fluttuante vaga su paesaggi cittadini per poi spostarsi in una della tante zone archeologiche della capitale.Immancabili giapponesi, guide turistiche e stranieri di ogni dove,una Babele etnico-linguistica in una cosmopoli dalla storia millenaria.Un canto gregoriano di voci femminili pare accompagnare le immagini.E invece no, la musica non accompagna nulla;l'inquadratura si sposta in un'antica chiesa dove un coro di giovani donne in tailleur sta intonando quel canto,che non è sovrapposto alle immagini ma costituisce il vero e proprio epicentro emotivo di queste. Uno dei tanti giapponesi prima di scattare l'ennesima fotografia stramazza al suolo.Un malore qualsiasi,dovuto al troppo caldo o forse alla troppa bellezza che gli si para davanti.
Dopo questi primi suggestivi minuti la scena cambia,addirittura si capovolge. Festa in discoteca: corpi sudati e sovraeccitati ballano e si avvinghiano,sexy cubiste ingarbugliano i pensieri di un Carlo Buccirosso ingrifatissimo.(Sua la prima vera battuta del film:''T'chiavass'').Dalle casse rimbomba il remix di Far l'amore di Raffaella Carrà.
Due scene così opposte e complementari: la prima sacrale,quasi soprannaturale.Nelle sue forme misurate(le architetture romane) e nella linea melodica solista del canto è del tutto apollinea. Pagana e chiassosa,a tratti coatta la seconda.E' un necessario contraltare:terrigeno ed eccessivo,dionisiaco nella danza sfrenata e sessuale,tre millenni dopo non più sul suono dell'aulos ma su quello della consolle elettronica.Un mare di individui fusi tra loro.Entrambe le sequenze avvengono nel raggio di pochi chilometri:il mistico ed il godereccio sono partoriti nella stessa città,opposti ma giustapposti in una inconcepibile coerenza. Il primo quarto d'ora vale già il prezzo del biglietto, tutto quello che viene dopo è un plusvalore che Sorrentino ci dona gratuitamente.
Il film pullula di citazioni e riferimenti a volte caricaturali senza mai scadere in una vacua erudizione accademica.Ogni personaggio reale o fittizio tirato in ballo è funzionale al carettere della pellicola. Flaubert e il romanzo su nulla,Dostoevski e la Polina de Il giocatore,il ritratto canzonatorio di una performer contemporanea tra arte e stupidità evidentemente ricalcato su Marina Abramovich,una ex-soubrette in disfacimento psico-fisico interpretata da Serena Grandi(un autorichiamo). Jep Gambardella si presenta come una doppia citazione:autore di un romanzo di successo(L'apparato umano) scritto quarant'anni prima,non scriverà mai un'opera seconda:impossibile non pensare a J.D.Salinger che dopo The Catcher in the Rye si ritirerà a vita privata fino alla morte. Il napoletano verace Gambardella non si farà da parte,ma sarà piacevolmente risucchiato da quel vortice di mondanità di cui diventerà sovrano indiscusso(perché lui ha il potere di farle fallire le feste),passando dall'essere scrittore a giornalista di cultura e di critica teatrale.Il rimpianto di essere stato deludente,per sé più che per gli altri,lo accompagnerà come un'ombra per sempre.E qui si palesa il secondo riferimento: il Marcello Rubini de La dolce vita,dilaniato tra l'ambizione letteraria e la perenne ricerca di piacere,costretto per tirare a campare a scrivere articoli di costume e gossip,animale sociale allergico alla forma borghese della famiglia.
Il debito con la grande opera di Fellini,tuttavia, non si riduce a questo.Stesse atmosfere,anche se in Sorrentino più cafone e burine; stesso imbarazzo dell'esistere,identico bisogno di vivere la notte tutte le notti;simile ricerca di sfogo sessuale,più agognato che realizzato.E poi c'è una Roma di rara bellezza:inferno e paradiso, amica puttana fonte di godimento e distrazione,madre matrona dall'abbraccio soffocante;descritta realmente attraverso occhiali immaginifici che riportano ad un grottesco mai banale.E' lei l'effettiva protagonista.
Ma dopo e dentro Roma c'è lui, Jep.Non è un personaggio,è un mondo nel mondo: è la maschera ambigua,dal fascino costruito ed effeminato.Può criticare e ridicolizzare tutti,ma solo perché ha già da sempre deriso se stesso.Mai prendere sul serio nulla, neanche Proust.
Sorrentino è un regista,ma soprattutto è un autore:la filosofia del suo cinema è unitaria e gnomica.Quindi nelle parole e nel modo di fare di Gambardella riecheggia l'apoftegma di Tony Pisapia ne L'uomo in più:''La vita è 'na strunzat''.Leggerezza e frivolezza(nel film si ride spesso),il bla-blaterare sotto cui si nascondono meschinità ed insicurezze,sotto cui si cela la voglia e la fatica di vivere.Questa è la grande bellezza:è il Tutto. Ogni luogo è bello,ogni persona è bella,ogni cosa è bella.Anche quelle brutte,ignobili,patetiche,squallide:bisogna solo saperle guardare.Se solo tutti avessimo gli occhi e le orecchie di Jep...
Tutti i personaggi sullo sfondo sono questo insieme di aspetti,in cui si instaura un ''rapporto non dialettico tra peccato e innocenza (dico non dialettico perché regolato dalla grazia)''.Interpretati da attori al meglio:Verdone,Herlitzka,Ferrari,Buccirosso,addirittura Lillo Petrolo ed una Ferilli mozzafiato(ma questo lo sapevamo) che regala una quantomai inaspettata interpretazione di grande livello.E' necessario dire,però,che in ogni personaggio traspare la magistrale direzione di Sorrentino.Nel 1960 Pasolini scrisse una importante analisi de La dolce vita che si concludeva con una descrizione complessiva dei personaggi del film,a mio parere valida anche per quelli de La grande bellezza.
''Guardate la Roma che egli descrive: è difficile immaginare un mondo più perfettamente arido. Un’aridità che toglie vita, che angoscia. Vediamo passare davanti ai nostri occhi un fiume di personaggi umilianti, in un umiliante spaccato della capitale: tutti cinici, tutti meschini, tutti egoisti, tutti viziati, tutti presuntuosi, tutti vigliacchi, tutti servili, tutti impauriti, tutti sciocchi, tutti miserabili, tutti qualunquisti[...]Eppure non c’è nessuno di questi personaggi che non risulti puro e vitale, presentato sempre in un momento di energia quasi sacra.
Osservate: non c’è un personaggio triste, che muova a compassione: a tutti tutto va bene, anche se va malissimo: vitale è ognuno nell’arrangiarsi a vivere, pur col suo carico di morte e di incoscienza.
Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vitalità, come spettacoli.''
Nel personaggio di Jep l'approccio alla vita di Sorrentino è facilmente riscontrabile, ma Servillo ci mette la faccia.Il suo viso è un capolavoro,ogni espressione ti resta impressa per giorni, e la vigorosa voce da attore teatrale ti scava nel di dentro.E' recitazione alle stelle,indefinibile ed incommentabile.
Le immagini. Ogni definizione è una riduzione,ma potremmo dire che il cinema sia un pensare in immagini.E le immagini de La grande bellezza pensano.Sono sovraccaricche,barocche,scintillanti;si tramutano sempre in immaginazione(tema che nelle parole di Cèline apre il film ).Un muro bianco diventa il mare e si può immaginare di essere felici, nonostante tutto.
La musica.Come già detto è emblematica nelle prime due scene,ma riveste un ruolo decisivo anche nel resto(è proprio lei il trucco per dimenticarsi di sé e sparire,come la giraffa).Gli accostamenti sono assurdi:canti gregoriani e remix da discoteca, Arvo Part e La colita,Zbigniew Preisner(il compositore di Kieslowski) e Bruno Lauzi, Gorecki e Venditti. Soprattutto la musica non è mai didascalica,mai serva di qualcos'altro:si impone insieme all'immagine con pari dignità.
In conclusione:seppur è un'opera che sfrutta stilemi del linguaggio cinematografico di tipo felliniano con un modo di raccontare che non scade mai nella mera narrazione evemenenziale(possiamo dire che non esiste una trama) si tratta di un film che si impone con prepotenza nella storia del cinema italiano e mondiale.Sorrentino racconta, o meglio il suo cinema non si riduce ad una sequenza di fatti,ma ad una serie di interpretazioni.La sua ultima fatica è un lavoro che non si può ignorare e dal quale non si può prescindere, soprattutto è un film ''irrecensibile'' da non liquidare con poche parole.E' una pellicola che va studiata in tutti i suoi aspetti.(Ovviamente tale analisi non può che essere parziale ed incompleta).
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giuliog02
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domenica 1 settembre 2013
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uno sguardo ( triste ) su roma
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Film di strepitosa bellezza, sagace, pungente, profondo, che fa riflettere.
Recitazione impareggiabile di Toni Servillo, accompagnata da eccellenti prestazioni della Ferilli e di Verdone. Scenografia e fotografia impareggiabili.
Innegabile l'ispirazione da " La dolce vita " e da " 8 e 1/2 " di Fellini, così come si può vedere, riduttivamente, quale risposta colta alla cartolina "To Rome with love " di Woody Allen, da cui é separato da secoli di
storia e di cultura.
La rivisitazione - con eccellenti riprese fotografiche - di innumerevoli arredamenti pittorici, scultorei, architettonici ed urbanistici di Roma e dei suoi palazzi non é che la contrapposizione critica della vacuità e superficialità
della classe pseudointellettuale attuale con la creatività, il pensiero operoso e realizzatore delle classi dominanti del passato.
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Film di strepitosa bellezza, sagace, pungente, profondo, che fa riflettere.
Recitazione impareggiabile di Toni Servillo, accompagnata da eccellenti prestazioni della Ferilli e di Verdone. Scenografia e fotografia impareggiabili.
Innegabile l'ispirazione da " La dolce vita " e da " 8 e 1/2 " di Fellini, così come si può vedere, riduttivamente, quale risposta colta alla cartolina "To Rome with love " di Woody Allen, da cui é separato da secoli di
storia e di cultura.
La rivisitazione - con eccellenti riprese fotografiche - di innumerevoli arredamenti pittorici, scultorei, architettonici ed urbanistici di Roma e dei suoi palazzi non é che la contrapposizione critica della vacuità e superficialità
della classe pseudointellettuale attuale con la creatività, il pensiero operoso e realizzatore delle classi dominanti del passato.
A differenza de " La dolce vita " in questo film non sembra esserci spazio per la speranza.
Un film da vedere, da far girare nelle scuole, che sarà inserito sicuramente nel futuro tra i capolavori della cinematografia italiana.
Tornerò presto a rivederlo per gustarmelo nuovamente.
Un grazie sentito a Sorrentino e a tutti coloro i quali hanno dato il loro contributo alla realizzazione di questa grande opera.
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fabiana dantinelli
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lunedì 3 giugno 2013
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il gatsby partenopeo naturalizzato capitolino
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Non ha vinto niente a Cannes, ma ha sbancato al botteghino e come poteva d’altra parte questo film amaro e narciso di Sorrentino, non risultare gradito al grande pubblico? Una Roma viziosa e decadente con i suoi fasti opulenti e volgarotti, che pure non smettono di stregare dopo millenni, un giornalista cinico e sferzante che pare la versione invecchiata di Marcello ne La Dolce Vita e poi uno stuolo di attori dai volti noti, che tuttavia sembrano confondersi nella folla cafon-chic di dagospiana memoria. Queste le carte vincenti de La grande bellezza, una pellicola che vuole omaggiare la capitale senza nasconderne gli aspetti più grotteschi e osceni, perché Roma “fa perdere tempo”, non ti lascia immaginare, né tantomeno scrivere, come forse vorrebbe la parte ancora incontaminata di Jep Gambardella, un Toni Servillo sempre grandissimo, qui novello Gatsby da terrazza romana.
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Non ha vinto niente a Cannes, ma ha sbancato al botteghino e come poteva d’altra parte questo film amaro e narciso di Sorrentino, non risultare gradito al grande pubblico? Una Roma viziosa e decadente con i suoi fasti opulenti e volgarotti, che pure non smettono di stregare dopo millenni, un giornalista cinico e sferzante che pare la versione invecchiata di Marcello ne La Dolce Vita e poi uno stuolo di attori dai volti noti, che tuttavia sembrano confondersi nella folla cafon-chic di dagospiana memoria. Queste le carte vincenti de La grande bellezza, una pellicola che vuole omaggiare la capitale senza nasconderne gli aspetti più grotteschi e osceni, perché Roma “fa perdere tempo”, non ti lascia immaginare, né tantomeno scrivere, come forse vorrebbe la parte ancora incontaminata di Jep Gambardella, un Toni Servillo sempre grandissimo, qui novello Gatsby da terrazza romana. E allora che sia festa, incontro, voyeurismo esacerbato, mentre tutto intorno scorre lo scenario stregante di questa capitale del vizio e dell’arte, dove ogni cosa sembra sempre estrema, eppure così accattivante, perfino quando banale. Così il personaggio di Verdone, scrittore fallito ma ancora genuino, o Lorena, la soubrette sfatta e rifatta che veste i panni assolutamente credibili di Serena Grandi, senza dimenticare l’imprenditore lascivo e la ricca casalinga annoiata. Non manca nessuna delle tipiche macchiette da party mondano, forse questa la pecca di Sorrentino, che dopo un incipit folgorante si lascia prendere la mano e “sfa”, permettendosi perfino la Sabrinona-stripper fairlady inverosimilmente inerme nelle braccia del Jep-Pigmalione. Trasuda citazioni, volute o meno, questa pellicola della Indigo-Medusa-Pathè, realizzata fra l’altro con la collaborazione di France 2 Cinéma, la versione francese della Rai ed in ultimo il personaggio di Jep, così perfettamente cosciente di sé stesso e del mondo, con un unico mai bissato romanzo di successo alle spalle, scivola via, senza lasciarci null’altro, se non l’eco discotecaro dell’ultimo rendezvous capitolino, mentre il nostro beneamato Servillo si allontana in completo scuro sul lungotevere alle prime luci dell’alba. Ottima la fotografia, buona la sceneggiatura, perfetto il montaggio, ma si poteva fare di più, o forse meno.
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michele
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venerdì 31 maggio 2013
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il viaggio di sorrentino
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Ho impiegato quattro giorni per scrivere la recensione di questo film e ho passato questi giorni a pensare intensamente alla pellicola, a chiedermi tante, molte cose, forse alla fine perfino troppe. E' un'opera sulla quale si è scritto moltissimo, verso la quale si sono usati molti aggettivi, alcuni si sono anche sprecati. Ha diviso, chi l' ha amata, chi l'ha odiata. Su alcune frasi e certe terminologie ci ricadrò anch'io, é inevitabile, perché è vero quando si dice che "La grande bellezza" è un film ambizioso, complesso e imperfetto, ma chi ha coraggio di osare e lanciarsi in certe operazioni monumentali dal punto di vista artistico, in questo caso cinematografico, sa che la cosa più bella è proprio farsi prendere la mano e lasciarsi trasportare dalla propria immaginazione, per poter raccontare come intimamente più desidera, la sua personale visione delle cose e lo spettatore deve fare altrettanto, lasciarsi cullare, incantare, ammirare ciò che osserva con l'entusiasmo di un viaggiatore errante che lungo la sua strada ne ha viste tante e soltanto dopo, quando il viaggio è finito, riesce davvero a rendersi conto di quello che ha visto e di quello che ha apprezzato.
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Ho impiegato quattro giorni per scrivere la recensione di questo film e ho passato questi giorni a pensare intensamente alla pellicola, a chiedermi tante, molte cose, forse alla fine perfino troppe. E' un'opera sulla quale si è scritto moltissimo, verso la quale si sono usati molti aggettivi, alcuni si sono anche sprecati. Ha diviso, chi l' ha amata, chi l'ha odiata. Su alcune frasi e certe terminologie ci ricadrò anch'io, é inevitabile, perché è vero quando si dice che "La grande bellezza" è un film ambizioso, complesso e imperfetto, ma chi ha coraggio di osare e lanciarsi in certe operazioni monumentali dal punto di vista artistico, in questo caso cinematografico, sa che la cosa più bella è proprio farsi prendere la mano e lasciarsi trasportare dalla propria immaginazione, per poter raccontare come intimamente più desidera, la sua personale visione delle cose e lo spettatore deve fare altrettanto, lasciarsi cullare, incantare, ammirare ciò che osserva con l'entusiasmo di un viaggiatore errante che lungo la sua strada ne ha viste tante e soltanto dopo, quando il viaggio è finito, riesce davvero a rendersi conto di quello che ha visto e di quello che ha apprezzato. Questo è l'effetto che fa questo film, lascia attoniti, pensanti, tra momenti di autentica poesia e meraviglia e altri in cui ci si perde facendo fatica a ritrovare l'orientamento e a farsi così molte domande sul perché di quella determinata scena, su cosa ci voleva dire. A distanza di giorni però, rimane assolutamente, tra dubbi e interrogativi ancora vigenti, l'incanto per una visione così ampia e poetica. Forse il primo mito da sfatare é che sia un film su Roma. Prima che un film su Roma è un film sui sentimenti, quelli veri, motore della felicità autentica. Ma dove andare a ritrovarli o a cercarli questi sentimenti? La risposta è del tutto interiore, è dentro se stessi che bisogna indagare e nelle proprie esperienze passate, le prime, perché innocenti, pure e soprattutto umili. Roma è lì, presente con tutta la sua maestosa grandezza e la sua infinita grandiosità, monumentale, a fare da termine di paragone tra la sua bellezza eterna, concreta e inamovibile nei confronti di quella effimera e quantomai finta e fine a se stessa (questi trenini non portano da nessuna parte) della gloria mondana che non lascia niente dietro di se, se non soddisfazioni puramente vacue e vuote di ogni valore e affezione emotiva, tant'é che Jep Gambardella si accorge ad un certo punto della sua vita, pur avendo vissuto per quarant'anni in mezzo alla gente, di essere solo e circondato da cadaveri viventi e da morti nel vero senso della parola che cadono uno ad uno come soldati al fronte.
Il suo è un ritratto di un uomo solo, speculare a quello di una Roma deserta che vive solo di notte, ma chiusa nei palazzi e nei salotti dell'alta borghesia, Via Veneto è vuota, deserta, lasciata godere a quelli che in un futuro forse ne saranno i nuovi dominatori che vengono dall'est o dal Medio Oriente. "Mi sento vecchio" dice Jep Gambardella e insieme alla vecchiaia porta dentro di se il tremendo vuoto della solitudine di chi ha vissuto di rendita e non ha saputo arricchirsi interiormente con il frutto delle proprie capacità artistiche, se mai le abbia avute, ma solo da un punto di vista materiale e vede riflesso se stesso in tutta quella galleria di personaggi inutili, finti, falsi, privi di valori e sentimenti che frequenta.
Non ci risparmia niente Sorrentino lungo questo viaggio, è minuzioso nell'andare a descrivere tutte quelle situazioni e ambienti in cui sia i ricchi che gli arricchiti fanno sfoggio della loro maschera di personaggi importanti e possono recitare al meglio il ruolo che quel tipo di ambiente richiede. Si passa attraverso le feste chic e volgari sui terrazzi, le rappresentazioni teatrali impegnate, i funerali, dove anche lì c'é un'etichetta da seguire per imporre la propria visibilità e poi ancora l'esibizione in chiave moderna dell'arte, fino alla corruzione morale della gerarchia ecclesiastica, vista come luogo non di spiritualità, ma come una casta di potere dove vendere la propria immagine e giocare più che mai ad apparire quelli che in realtà non si é.
Ma allora dice Gambardella a Ramona, anima consapevole di essere dannata e condannata, interpretata da una sublime Sabrina Ferilli, di fronte a tanta falsità e finto splendore, vieni con me a vedere quella vera di bellezza, quella che nessuno, pur avendola sotto gli occhi tutti i giorni, nota, perché per apprezzarla è necessario essere puri e senza maschere sul volto e questa bellezza non può che essere quella di Roma e dei suoi palazzi.
Tutto questo Sorrentino ce lo racconta con il suo stile visionario, elevato all'ennesima potenza, i suoi film precedenti in confronto a questo sembrano remoti, già "Il divo" che pur contiene stilisticamente tutti i marchi di fabbrica del regista napoletano e ne sembrava risultare la sintesi perfetta del suo cinema, sembra essere un lontano ricordo, tanto si è evoluto adesso. In effetti Sorrentino estremizza al massimo qui, la sua capacità di andare oltre il dato reale e concreto delle cose per poterle immaginare secondo una sua personale visione e si lascia andare senza freni a descrivere una storia che ha tanto del fantastico e del surreale, componendo scene su scene che non seguono un filo narrativo prestabilito e consequenziale, come se poi, mischiandole tra loro, il senso del film non cambiasse poi tanto e sicuramente in tutta questa eccessiva libertà stilistica, ogni tanto si cade e ci si perde come inevitabile che sia. Ogni singola scena è uno spettacolo per gli occhi, ma andando a sommarle insieme, una accanto all'altra, non tutto torna e fila in maniera liscia e continua e il film appare così a volte un po' troppo frammentato, ma in fondo, proprio questa era l'intenzione del regista. Se infatti "La grande bellezza" è un viaggio, come preannuncia la citazione di Céline tratta dal "Viaggio al termine della notte" che apre il film, il viaggio non ha sempre elementi di contiguità, ma ogni tappa ha una sua storia, un suo effetto che si distacca da quello precedente e nell'infinito puzzle di questo spaccato sociale umano, fatto di momenti di euforia, caciara (per dirla alla romana) e poi di calma e silenzio improvviso, come una quiete dopo le tempeste musicali notturne, una visione a volte un po' confusa e spezzata fa parte del gioco. Quello che conta é quello che rimane dopo, dentro noi stessi, alla fine del viaggio.
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writer58
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lunedì 10 marzo 2014
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dopo 2767 anni...
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Ho visto "La grande bellezza" in streaming in due riprese, questo fine settimana, incuriosito dal bailamme provocato dalla vittoria dell'Oscar al miglior film "straniero". Dico subito che il dibattito sull'eredità di Fellini e della "Dolce vita" mi sembra una fesseria, i due film sono diversi come sguardo e come approccio, condividono la stessa ambientazione, ma lo fanno con occhi differenti.
Roma è l'indiscussa protagonista del film. Una Roma attraversata da sedimentazioni molteplici, da incrostazioni che mescolano vestigia dell'Impero, architetture e simboli della potenza della Chiesa, trionfi rinascimentali, torsioni barocche,palazzi notturni, riti cattolici che convivono con cerimonie pagane, catacombe e giardini sopraelevati, cinismo e disincanto, volgarità esibita ed esercizio sottile dell'intelligenza.
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Ho visto "La grande bellezza" in streaming in due riprese, questo fine settimana, incuriosito dal bailamme provocato dalla vittoria dell'Oscar al miglior film "straniero". Dico subito che il dibattito sull'eredità di Fellini e della "Dolce vita" mi sembra una fesseria, i due film sono diversi come sguardo e come approccio, condividono la stessa ambientazione, ma lo fanno con occhi differenti.
Roma è l'indiscussa protagonista del film. Una Roma attraversata da sedimentazioni molteplici, da incrostazioni che mescolano vestigia dell'Impero, architetture e simboli della potenza della Chiesa, trionfi rinascimentali, torsioni barocche,palazzi notturni, riti cattolici che convivono con cerimonie pagane, catacombe e giardini sopraelevati, cinismo e disincanto, volgarità esibita ed esercizio sottile dell'intelligenza. Dentro questo coacervo di elementi che rendono la "città eterna" un labirinto e insieme una calamita, si muove la vicenda di Jep Gambardella, scrittore e giornalista e della fauna umana che frequenta. Quasi tutti disgustosi, grotteschi, squallidi e repellenti. Con due eccezioni, interpretate dalla Ferilli e da Verdone, due personaggi che riescono a sfuggire alla disumanizzazione che affligge tutti gli altri. Gambardella si muove tra feste, happening, performance e il cuore notturno di Roma come se facesse gli onori di casa, con una totale padronanza non esente da ironia e una punta di malinconica consapevolezza. Arrivato a Roma molto giovane, si è dedicato alla vita sociale e culturale con l'ambizione di diventare un principe di mondanità. C' è riuscito (conosce tutti, viene salutato da Venditti con un confidenziale "ciao, Jep"), ma adesso contempla il vuoto che gli è vicino, che l'ha invaso e che ha bloccato la sua vena di scrittore.
Si è parlato molto della "Grande bellezza" come dell'affresco di una società decadente, ma non condivido questa posizione. Fin dal "Satyricon" di Petronio Arbitro, la società aristocratica romana è stata descritta come incline agli eccessi e alla dissoluzione. Ciò che viene definito "decadente", in realtà, è una vitalità onnivora e amorale, il piacere del pettegolezzo e dell'intrigo,il trionfo del "particolare" su una visione dei problemi generali, tratti che segnano da sempre la cultura della città, almeno in alcune delle sue componenti.
"La grande bellezza" è un magnifico film, che lascia una traccia nello spettatore. Mi è parso girato in modo eccellente, con un gusto squisito dell'inquadratura e una gestione pressoché perfetta degli attori. In primis, un grande Servillo, coadiuvato da una schiera di personaggi molto ben interpretati.
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diomede917
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martedì 28 maggio 2013
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la cafona vita
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E’ possibile fare un film sul nulla, fatto di nulla che porta al nulla…..Sorrentino ci è magnificamente riuscito con “La Grande Bellezza”.
Il film ha per protagonista la Roma di oggi…..una città che ha mantenuto la sua eterna bellezza ma che è popolata nel suo sottobosco da una società fortemente cafona, pseudo intellettuale che gira a vuoto su stessa tra una festa spiccatamente esagerata e chiacchiere alla Maurizio Costanzo Show nelle terrazze vista Colosseo.
I rimandi e i parallelismi sono certamente quelli nobili del Fellini de La Dolce vita di Via Veneto o l’aspetto iconoclasta di Roma. E sempre felliniano è il rapporto che lega il regista con il suo alterego Jep Gambardella……occhi napoletani che scrutano e giudicano la realtà che lo circonda.
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E’ possibile fare un film sul nulla, fatto di nulla che porta al nulla…..Sorrentino ci è magnificamente riuscito con “La Grande Bellezza”.
Il film ha per protagonista la Roma di oggi…..una città che ha mantenuto la sua eterna bellezza ma che è popolata nel suo sottobosco da una società fortemente cafona, pseudo intellettuale che gira a vuoto su stessa tra una festa spiccatamente esagerata e chiacchiere alla Maurizio Costanzo Show nelle terrazze vista Colosseo.
I rimandi e i parallelismi sono certamente quelli nobili del Fellini de La Dolce vita di Via Veneto o l’aspetto iconoclasta di Roma. E sempre felliniano è il rapporto che lega il regista con il suo alterego Jep Gambardella……occhi napoletani che scrutano e giudicano la realtà che lo circonda.
Se queste sono le analogie, forti sono le differenze che fanno de “La Grande Bellezza” un film che ha una personalità propria e che si identifica in quella del suo regista.
L’Io narrante, Jep Gambardella, non è un semplice osservatore del costume del suo tempo (come fu Mastroianni) ma è uno scrittore che ha scritto il suo unico libro a 26 anni (vincendo un Bancarella) e che ha realizzato il suo reale sogno……quello di non vivere solamente la mondanità ma di esserne il re, circondato da una corte dei miracoli di sudditi che ballano e annaspano pur di essere presenti e apparire.
Il protagonista, perfettamente incarnato nella fisicità di Toni Servillo, si diverte e sguazza in questo mondo e il suo mestiere di giornalista di una rivista trendy lo mette nelle condizioni di disporre della sua lingua tagliente per lanciare stilettate precise e micidiali al mondo che lo circonda.
Bellissima la discussione dove zittisce Galatea Ranzi attivista di sinistra, mamma e donna con le palle vomitandole con il sorriso tra i denti le contraddizioni della sua vita meschina oppure quando racconta e poi rappresenta la mondanità di un funerale.
Il film non ha una sua struttura propria va avanti a forza d’inerzia come i suoi protagonisti, come quei calendari dove strappi il giorno passato e vivi il presente per poterlo strappare l’indomani.
E’ un susseguirsi di situazioni e personaggi al limite dell’assurdo e del paradosso….dalla ricca vedova che non riesce ad avere uno straccio di rapporto con il figlio mandandolo da svariati analisti, allo scrittore sfigato sfruttato dalla starlette di turno (un malincomico Carlo Verdone), all’annoiata milanese che si fotografa nuda per mettersi su Facebook a una strabordante Serena Grandi parodia di se stessa (da vedere assolutamente la scena dal chirurgo estetico alternativo per credere) fino ad arrivare a un clero fortemente ridicolizzato dove monache di clausura guardano avidamente mandinghi di una tribù lontana e un cardinale che invece di dispensare speranza dispensa ricette manco fosse la Parodi……il vero contro senso è che in questo nulla c’è tanto pure troppo e la sensazione è che a un certo punto Sorrentino è sembrato un po’ fagocitato da questo pigro errare verso il finale dando la sensazione che se il film fosse durato una mezz’oretta in meno avremo assistito ad un autentico capolavoro di critica della società contemporanea…..invece abbiamo “solo” un ottimo film
Voto 7/8
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ennas
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martedì 4 giugno 2013
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un treno per la città eterna
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E’ “l’apparato umano” il soggetto di questo film non solo la Roma gaudente e corrotta della dolce vita. La scelta di Roma come genius loci è funzionale ad un lavoro ambizioso. Roma è il palcoscenico per eccellenza per un film come questo: le splendide riprese della città, con i suoi panorami abbacinanti, i suoi monumenti e reperti sparsi per ogni dove, la Roma notturna delle sue vie celebri, le visioni oniriche dalle terrazze affacciate su antichità favolose, i suoi angoli e scorci stupendi regalati allo sguardo del nottambulo, (nel film Jep Gambardella) che rincasa al mattino, quando tutto dorme…Roma è tutto questo ma non solo : è una città, una capitale, su cui i riflettori e le telecamere sono perennemente accesi, per ragioni politiche, religiose, storiche, artistiche, mondane…Roma possiede al quadrato tutti gli ingredienti della “scena” e il film “La grande bellezza” rende visivamente con impareggiabile maestria questo carattere della città.
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E’ “l’apparato umano” il soggetto di questo film non solo la Roma gaudente e corrotta della dolce vita. La scelta di Roma come genius loci è funzionale ad un lavoro ambizioso. Roma è il palcoscenico per eccellenza per un film come questo: le splendide riprese della città, con i suoi panorami abbacinanti, i suoi monumenti e reperti sparsi per ogni dove, la Roma notturna delle sue vie celebri, le visioni oniriche dalle terrazze affacciate su antichità favolose, i suoi angoli e scorci stupendi regalati allo sguardo del nottambulo, (nel film Jep Gambardella) che rincasa al mattino, quando tutto dorme…Roma è tutto questo ma non solo : è una città, una capitale, su cui i riflettori e le telecamere sono perennemente accesi, per ragioni politiche, religiose, storiche, artistiche, mondane…Roma possiede al quadrato tutti gli ingredienti della “scena” e il film “La grande bellezza” rende visivamente con impareggiabile maestria questo carattere della città.
Una delle scene iniziali del film ci mostra un turista che stramazza al suolo dopo lo scatto di una foto: non “la sindrome di Stendhal” , la confusione dell’io di fronte alla bellezza dell’arte ma la sincope fulminante, epilogo definitivo di un febbrile cogli l’attimo. A rimarcare l’aspetto fuggevole del tempo, l’apparato umano che il film dispiega fin dall’inizio è percorso da una frenesia che sovrasta le martellanti musiche dei balli. Verso questa varia umanità lo sguardo del regista è feroce: “la società dello spettacolo” dove l’apparire, il mettersi in mostra è l’imperativo categorico, l’esibizionismo sconfina nel grottesco. Ciò che conta è l’esibirsi in modo spettacolare, non importa se ridicolo, scandaloso o patetico. Trionfa il burlesque, il trasformismo, la parodia.
Jep Gambardella non è un perdente: anche se ha scritto un solo libro ha avuto generosamente ciò che cercava, ( non volevo solo essere il re delle feste mondane – dice- ma avere il potere di farle fallire). Per questo può permettersi il disincanto, l’ironia, e la messa a nudo delle pecche altrui.
Festeggia il suo sessantacinquesimo compleanno nella maniera mondana che coltiva da tempo ma qualcosa lo destabilizza :nostalgia, rimpianti? Nel vuoto di senso che lo circonda compare qualcosa che si fa pesante. “La morte ci cammina accanto” : questa frase Gambardella la pronuncia come una constatazione. L’apparire, il mostrarsi, l’esserci, cambiano di prospettiva
e succede che si può scoppiare in lacrime ad un funerale, come non si dovrebbe mai fare, perché si è costretti dalle circostanze a reggere simbolicamente la morte sulle spalle.
Cosa ha perduto Jep Gambardella? Il vedovo di un suo poetico amore di gioventù gli ricorda che la moglie ha amato lui, Jep, tutta la vita considerando il marito un buon compagno di percorso. La ragazza che riaffiora nei ricordi di Jep è stata sedotta per sempre dall’assenza e nell’apprenderlo , lui stesso subisce questo fascino. L’amore e la bellezza sono eterni? Sì sono eterni, ma non è eterno il tempo che ci è dato di viverli.
Uno spirito di “vanità delle vanità, tutto è vanità” percorre l’intero film : nel protagonista come negli altri personaggi e regala allo spettatore perle di grande cinema: ad es. l’artista performer (pube tinto di rosso con falce e martello) che vive di “vibrazioni” ma non sa dire cosa siano, la bambina angosciata che imbratta tele davanti ad un pubblico artefatto, il botox-party –catena di montaggio di chi lucra sulle debolezze altrui, il cardinale che tralascia ogni lessico dello spirito per parlare solo di cucina ( linguaggio oggi quanto mai canonico!), la santa, avara di parole che si ciba di radici – perché le radici sono importanti- dice a Jep, il mafioso che si dichiara vero rappresentante! sic! dell’Italia laboriosa, questi ed altri dettagli sono memorabili.
Una menzione speciale va all’ottimo lavoro degli attori: non solo Servillo ma anche gli attori non protagonisti danno vita ad un impegno corale di fantastica bravura. Merito anche loro, e dei curatori delle musiche, della fotografia che con il regista Sorrentino hanno dato vita ad un film di grande bellezza, da non perdere.
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pepito1948
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mercoledì 5 giugno 2013
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le maschere di sorrentino
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A primo impatto, è difficile sottrarsi al richiamo dei precedenti illustri cui in qualche modo il film si aggancia. Ovvio il rimando al cinema di Fellini, che con il suo stile espressivo ed il modo personale di rappresentare e staffilare la realtà ha influenzato gran parte del cinema successivo, in Italia come all'estero. Anche qui i personaggi principali o di contorno sono maschere, non dipinte o incipriate ma in carne ed ossa, comunque rappresentative di tipologie (o patologie) umane. La maschera di Servillo, solcata da rughe mobili e plastiche come gommapiuma che da sole dispiegano un’incredibile varianza espressiva (sotto cui alligna una multiforme perrsonalità), ne è un esempio.
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A primo impatto, è difficile sottrarsi al richiamo dei precedenti illustri cui in qualche modo il film si aggancia. Ovvio il rimando al cinema di Fellini, che con il suo stile espressivo ed il modo personale di rappresentare e staffilare la realtà ha influenzato gran parte del cinema successivo, in Italia come all'estero. Anche qui i personaggi principali o di contorno sono maschere, non dipinte o incipriate ma in carne ed ossa, comunque rappresentative di tipologie (o patologie) umane. La maschera di Servillo, solcata da rughe mobili e plastiche come gommapiuma che da sole dispiegano un’incredibile varianza espressiva (sotto cui alligna una multiforme perrsonalità), ne è un esempio. Detto questo, c'è una differenza profonda tra la denuncia felliniana di La dolce vita (e Roma) e quella di Sorrentino: la prima è fortemente "localizzata" su Roma, sulla borghesia frivola del jet set e dei paparazzi che scorazzano per Via Veneto, la statua di Cristo che atterra in pieno San Pietro, la Vamp bella ma volatile che valorizza con le sue forme la magia di Fontana di Trevi. Inimmaginabile ambientare altrove quelle storie partorite dalla mente del grande Federico. Per Sorrentino Roma è il grande palcoscenico in cui far muovere i suoi personaggi, scelta per dare corpo ad un esempio difficilmente sostituibile di Grande Bellezza; ma il racconto di per sè ha una validità che trascende la specifica ambientazione.
La linea narrativa (difficile parlare di una storia vera e propria) si snoda su due piani, ovviamente collegati: quello statico del contesto, immobile nella sua zoologia umana anaffettiva, vuota, senza colori interiori, senza obiettivi che non siano quello di fare gruppo per alimentarsi reciprocamente di una verbosità (o di silenzi-assensi) inconcludente; l'altro è il percorso dinamico di Jep Gambardella, 65enne tardivamente in procinto di voltare l’angolo della sua vita. Vita vissuta in mezzo ai "senza": senza scossoni, gratifiche evolutive, arricchimenti che vadano oltre il potere "di partecipare alle feste per farle fallire". Vita che diventa nuovo percorso di ricerca di uno stimolo per ritrovare il bandolo di una matassa interrotta anni prima, quando, dopo aver scritto un solo libro senza successo dal titolo significativo (L'apparato umano, che sottende una visione limitata alla mera fisicità dell'uomo), Jep si è fatto monarca senza rivali delle notti romane festaiole e spensierate (nel senso di prive di ogni pensiero significativo), annegando nel vuoto pieno solo di "apparati umani" in movimenti senza senso, marionette di se stessi condannate ad una eterna ripetizione rituale.
Jep si disvela per un grande, perchè sa di essere un “vuoto” diverso dagli altri in quanto consapevole di esserlo ed in fondo, avendo sperimentato il “pieno”, non accetta di continuare ad essere vuoto per sempre. Così non si limita a fare passivamente gruppo, ma si misura con gli altri denigrando attraverso il fioretto o la spada coloro in cui vede la propria immagine riflessa: affonda i colpi non tanto verso gli uomini del contesto, irrilevanti (come il performer che non sa come definire le proprie vibrazioni) o silenti (come il poeta, assorto e assente) o indolenti anche nel fare sfoggio di vacuità, ma verso le donne che –mettendosi comunque in gioco- preferiscono ostentare il proprio poco di buono nascondendo il tanto di non edificante: l'attacco alla donna del Partito è uno dei momenti più violenti e trainanti dell'intero film. Ma Jep, lungi dall’essere misogino, sa distinguere le donne di valore, che rispetta e stima: sono quelle fuori dal coro, fuori dalla Terrazza, le "diverse", come la sua direttrice editoriale, nana, non sensuale ma affabile, intelligente e volitiva, la colf sudamericana, lontana dalle depravazioni e dall'amoralità degli ospiti festanti, e soprattutto la spogliarellista popolana e ruspante, bellissima e sensuale ma triste e sola, con cui Jep instaura un rapporto di padre-figlia, ignorando il suo terribile segreto fino al momento della sua scomparsa.
Jep sa di essere un attore, più grande degli altri, ma resta una maschera, e come lui sa smascherare i più cani, così qualcuno più abile di lui potrebbe fare altrettanto nei suoi confronti; è il prestigiatore (o la sua vittima) che, tra i ruderi (umani) può far scomparire la giraffa (che è anche un microfono per i recitanti). Per questo, per darsi un'essenza credibile ed incancellabile, per uscire dal recinto dei mediocri e debordare verso l'”altrove”, non può accontentarsi della Grande Bellezza della sua città, splendida, ineguagliabile nei suoi colori, ma irrimediabilmente inquinata dalle chiazze stinte ed indelebili della pochezza umana. La delusione lo induce ad inseguire un'altra Grande Bellezza, quella che lo ha illuminato e segnato in gioventù e che l'ha abbandonato senza dire perchè (e neanche il suo successivo compagno e marito gliel'ha saputo spiegare). Solo un viaggio a ritroso può ridargli quella sensazione; il passato non può tornare come esperienza , ma può restituire i suoi sapori. E tornando a quei sapori, alla percezione a tutto campo della Grande Bellezza di quella ragazza che si spoglia in tutta la sua incontaminata soavità, Jep ritroverà il senso di una nuova vita vuota di vuoto e piena di orizzonti più lontani. E forse riprenderà a scrivere qualcosa su una realtà umana che travalichi i suoi "apparati" e spazi in una dimensione non solo fisica ma pervasa anche di sana ultramaterialità; quella spiritualità che invano ha cercato di cavare dal vacuo cardinale tutto preso dai piaceri della gola.
Sorrentino dimostra ancora una volta di essere un grande regista, cioè un grande facitore di immagini, a tratti un grande poeta, e, sulla scia del suo penultimo film "americano", padroneggia alla perfezione i passaggi dal realismo mondano al surrealismo, al simbolismo, al funambolismo significante, facendo volteggiare la macchina da presa nelle più diverse angolazioni; come se ci ricordasse che la realtà ha molte facce e molti punti di vista. La sua denuncia talvolta usa l'accetta, sempre elegante ed affilata, tal altra il bisturi dell'ironia, della satira raffinata; in ogni caso rifugge dalla banalità. Dà corpo ad un apologo sulla rassegnazione di una società opulenta –fatta di chi pure avrebbe la possibilità di non affogarvi- che riesce ad imbruttire con la propria mediocrità tutto ciò che, in natura o per mano umana, offre spunto di nobilitazione e si denuda di qualsiasi potenzialità di riscatto. Ma l'uomo non trascina con sè nel mare omologante l'ntera umanità, e dai suoi bassifondi emerge sempre qualcuno disposto a non accontentarsi del suo niente per tentare la risalita.
E' un film perfetto La Grande Bellezza? No, non lo è. Qualcuno ha detto non a torto che è un po' troppo estetizzante, compiacente, ma lo stesso Sorrentino ammette il suo narcisismo, laddove ci fa vedere Jep che scorre assorto la serie di fotoritratti affiancati, uno per ciascun giorno di vita, messi in mostra dal fotografo-artista: come dire che tutti gli artisti sono narcisisti, se consapevoli del credito che offre loro il proprio estro una volta messo a disposizione del pubblico.
Inoltre la parte finale pecca di eccessiva lunghezza, e soprattutto abbonda di inutilità, con alcuni elementi narrativi ( la vecchia santa e l’invasione delle gru) superflui ed un po' fragili; ma resta comunque un’opera di alto livello artistico che si presta a riflessioni che vanno oltre le gozzoviglie e la stupidità umana, qui spalmata un po' su tutti i ceti (a differenza di quella socialmente circoscritta nella Dolce vita o nel recente Grande Gatsby). E soprattutto è un film che vibra di un pensiero profondo, e rivela l’impostazione letteraria di un autore che è diventato anche uno scrittore di successo.
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