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Il film è bello e importante, figurativamente strepitoso. ambiziosissimo e presuntuoso, con un flusso di immagini ammaliante e stordente. Ma l'oggetto della sua indagine non è Roma, ma i grandi film su Roma, e il titolo è una parafrasi de La dolce vita, dove a "dolce" che è un sentimento, si sostituisce "grande" che è una quantificazione, come dire passare da qualità a quantità, e a "vita" si sostituisce "bellezza", cioè dalla sostanza intima e profonda, alla superficie estetica, dall'essere all'apparire. E tutto è, detto in premessa citando O'Neill, è falso, rappresentazione non reale, per cui in questo vero bagno termale "romano" che è la visione del film, con calidaria (Ferilli), tepidaria (Verdone), frigidaria (Gambardella e il suo salotto delle cere) ti immergi come un senatore o come in un flusso di coscienza proustiano (non yoiciano), che non devi mai fare l'errore di interrompere, perché poi alla ripresa tutto ti suonerà falso. Ieri sera ho rivisto il film per la seconda volta e dannatamente la proiezione è stata di nuovo interrotta per l'intervallo. Alla ripresa tutto suonava falso e stridente, declamatorio, onanistico e disordinatamente accumulatorio. Parlo della sequenza del funerale, quella con la pittrice bambina, il fotografo di se stesso ogni giorno sin da bambino, la giraffa a Caracalla, la santa e il cardinale culinario... Ma la colpa è della proiezione, "non si interrompe un emozione" citando Veltroni. I debiti, che in realtà sono veri e propri omaggi, calchi come quelli di Gus Van Sant nel remake di Psycho, sono innumerevoli. Di Fellini s'è detto (stessi movimenti di macchina, stesse suorine saltellanti, stesso mostro marino annunciato (ma Sabrina non farà in tempo a vederlo - geniale la sua morte fuori dallo schermo, se ne è andata come ha vissuto, in silenzio, ma un personaggio meraviglioso il suo che è il principale motivo che mi ha portato a rivedere il film, e stupendo "E' stato bello non fare l'amore con te- è stato bello volesse bbene") spiaggiato come nel finale de La dolce vita. Stesso primo piano finale sul candore di un' adolescente (Valeria Ciangottini- indimenticabile ma dimenticata). Stessa Saraghina-Serena Grandi. Ma debiti anche di scrittura: la distruzione venefica della creatività "di partito" di Galatea Ranzi da parte di Jep, presa di peso da La terrazza di Scola, l'editrice nana-stilista spaziale presa addirittura da Gli Incredibili della Pixar (là era doppiata da Amanda Lear...). Tutto quello che è raccontato nel film è letterario, volutamente, non c'è niente di socio-antropologico - a cominciare dall'enorme insegna, vero Saturno ravvicinato posticcio al neon del Martini (product placement non del liquore ma direttamente degli anni sessanta) Roma di oggi non è così, il cafonal non ha questo stile questa patina letteraria che lo nobilita. O forse Roma e il "generone" nobiltà nera- commercianti di pezze è un'entità cristallizzata fuori dal tempo che viaggia inconsapevole come il gattopardismo, dai tempi di Satyricon, passando per la Venezia casanoviana ricostruita nella piscina di Cinecittà per arrivare all'oggi. La lezione profonda del film è che Roma può essere solo rappresentata non vissuta, come forse si poteva fare ai tempi di Fellini, Flaiano, Pinelli. Bravi Contarello, Sorrentino. Bravi e e coraggiosi. "Più bella e più splendente che pria" "bravo" "grazie"
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emmeci
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lunedì 13 gennaio 2025
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il finale del commento
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Sul finale petroliniano mi sono alzato e ho applaudito: perfetto per il film, bello con i suoi pregi e difetti. Perfetta poi l''osservazione che sposta inquadratura sull''origine letteraria della pellicola: decadenza della società, il vuoto dell''esistenza contemporanea, blablabla, a posteriori forse si comprende meglio che è tutto più semplice cioè un inganno. Per me nel cinema come nella letteratura c''è una grammatica, se non la si conosce addio a tutte le meravigliose visioni e ai profondi concetti e nel cinema questa è rappresentata dalla padronanza tecnica senza la quale niente stile, niente scene felliniane. Qui la tecnica è di altissimo livello e permette a P.S. di raccontare Roma nella sua lingua, lui si esprime così punto e basta.
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Sul finale petroliniano mi sono alzato e ho applaudito: perfetto per il film, bello con i suoi pregi e difetti. Perfetta poi l''osservazione che sposta inquadratura sull''origine letteraria della pellicola: decadenza della società, il vuoto dell''esistenza contemporanea, blablabla, a posteriori forse si comprende meglio che è tutto più semplice cioè un inganno. Per me nel cinema come nella letteratura c''è una grammatica, se non la si conosce addio a tutte le meravigliose visioni e ai profondi concetti e nel cinema questa è rappresentata dalla padronanza tecnica senza la quale niente stile, niente scene felliniane. Qui la tecnica è di altissimo livello e permette a P.S. di raccontare Roma nella sua lingua, lui si esprime così punto e basta. Nelle sue "frasi" possiamo leggere molte cose, tutte vere e tutte false per la natura ingannevole del cinema: sappiamo che è un tranello, una finzione, ma cadiamo volentieri nella trappola proprio perché ci vediamo quello che vogliamo. Poi è chiaro che oggi è impossibile non trovare riferimenti anche quando non c''è volontà di citazione, dobbiamo capire che Welles, Kubrick, Hitchcock, Truffaut ci sono già stati. Sì, anche loro hanno avuto dei predecessori, però erano un po'' meno. Un po'' come Fellini che a mio parere ha raccontato Roma nella sua lingua, quelle parole con il passare del tempo hanno preso molti più significati di quelli suggeriti dal regista e penso che sia la qualità più affascinante. Contemporaneamente si può leggere il film con molta più leggerezza e riconoscergli lo stesso immenso valore. E non vedo miglior paragone dell''immersione in un flusso che parte dalla fonte dell''Acqua Paola fino al Tevere e forse anche fino alla spiaggia de "La dolce vita". Con Petrolini in agguato non posso dire bravo e allora complimenti per la recensione!
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