A fianco di molti elogi giustamente spesi nei confronti de “la grande bellezza”, molte sono state anche le critiche arrivate, per lo più, diciamolo, dal pubblico italiano. Fra tutte, la più comune riguarda lo scarso ritmo della piccola, giudizio questo sintetizzato da un tanto lapidario quanto sbrigativo: “è un film noioso”. La realtà, se vogliamo dirla tutta, è che la grande bellezza non è né un film noioso, né tantomeno un film. O almeno, non nel modo “tradizionale” in cui tutti noi intendiamo il concetto di film: ossia un potente costrutto narrativo con uno o più protagonisti che, passando per alcuni avvenimenti particolari, procedono da un punto di partenza “A” verso un punto di arrivo “B”.
Ne “la grande bellezza”, tanto per essere chiari, non vi è niente di tutto ciò: non c’è una precisa costruzione narrativa, non c’è un punto di partenza, non c’è un punto di arrivo, non c’è una chiara conclusione e soprattutto non c’è alla base del film una molteplicità di sfortune contro le quali il protagonista si imbatte per giungere felicemente al tanto agognato obiettivo. O meglio, le sfortune ci sono, ma vengono qui rappresentate più come limiti della natura umana da metabolizzare piuttosto che come insormontabili ostacoli da superare. Se vogliamo dirla tutta, la grande Bellezza è un film che non è piaciuto a molti proprio perché, con un cinismo un po’ sfrontato e dal sapore fortemente nostalgico, spalanca gli occhi di fronte alla naturalezza e alla insensatezza della vita; vita stessa che viene qui rappresentata più come un frammentato e incoerente flusso circolare di istanti a sé stanti che come un preciso e lineare continuum diretto a un obiettivo. E, malgrado quanto detto dai media nazionali, la grande bellezza non parla dell’Italia: o almeno, non solo. Sorrentino ha l’obiettivo ben più ambizioso di rappresentare la vita stessa, filtrandola con lo sguardo narcisistico proprio dell’era postmoderna nella quale stiamo vivendo. E, a mio avviso, riesce in questa impresa soprattutto grazie a due principali fattori.
Prima di tutto, Sorrentino esprime al meglio la trasformazione di quadro concettuale avvenuta nell’ultimo secolo: dissolti i miti neopositivisti fiduciosi nel rappresentare vita e società come coerenti narrazioni che la scienza è in grado di spiegare, la vita è ora ridotta a un tanto confuso quanto incoerente susseguirsi di frammenti isolati fra di loro, con la dimensione temporale che passa da verità apodittica a sensazione meramente soggettiva, prodotta interamente dall’esperienza singola dell’individuo. Tradotto: la sicurezza di un mondo coerente e sotto controllo diventa incertezza riguardo una realtà che non per forza è come sembra. Jep non ha un ruolo nella società, né un fine nella vita: vive per esistere, alla stregua di tutta la gente che lo circonda. E lo fa passando attraverso una serie di momenti a cui cerca, neanche troppo convintamente, di dare un senso, di trovarne, in qualche modo, “la grande bellezza”. Grande Bellezza che alla fine, di fronte allo sguardo impietosito ma anche velatamente accusatorio della suora, accetta di non essere riuscito a cogliere; il senso globale del tutto si sgretola miseramente di fronte alle risposte non date, e l’uomo soffre in solitudine questa perdita di certezza.
In secondo luogo, ma non per questo meno in modo meno convincente, la grande bellezza esprime in toto la trasformazione sociale di cui tutti negli ultimi decenni siamo stati contemporaneamente attori e vittime. Privi ormai di qualsiasi punto di riferimento sociale, persi fra una chiesa che partorisce cardinali senza fede e una politica che viene rappresentata da latitanti che si vantano di mandare avanti l’economia, i personaggi della grande bellezza, così come gli individui del mondo post-moderno, si aggirano infatti per la vita non solo senza modelli comportamentali da seguire, ma anche senza ideali propri da perseguire. Scrittori che non scrivono, malati che non si curano, preti che non pregano, soubrette che non ballano più, intellettuali che si pensano superiori pur non avendo nulla in più della gente comune: tutti partecipano al carrozzone decadente della postmodernità, dove si preferisce perdersi in una vorticosa spirale di mondanità votata interamente al raggiungimento del piacere nell’istante presente piuttosto che fermarsi a riflettere e a ricercare un senso più profondo della loro esistenza. Eppure la riflessione, o il tentativo di riflettere, non manca, né nella vita, né in questo film: ma il sapore dei pensieri di Jep e di molti di noi è alla fine una sorta di reminiscenza malinconica con un retrogusto amaro: comprendere che ci sia qualcosa che non va, ma non riuscire (o non volere) afferrarne il senso completo. E non perché sia impossibile, ma, cosa se vogliamo ben più grave, perché manca la costanza e la voglia di credere nelle proprie potenzialità. Jep è nello stesso tempo specchio e sintomo di una società senza guida, che ha prodotto una generazione priva della capacità di concentrarsi non solo sulle proprie potenzialità, inserendole in un percorso di crescita individuale a lungo termine, ma neanche sugli avvenimenti circostanti. L’unico obiettivo della vita postmoderna diventa quindi una distrazione disillusa fine a se stessa, che allontana, o quantomeno non avvicina, alla verità della vita: un mero divertissment che non solo non aiuta a rispondere alle domande, ma non contribuisce neanche più a porsene di nuove.
La recita di Jep, che alterna quotidianamente maschere pirandelliane per sopravvivere al senso di decadenza interiore, coinvolge quindi tutta la capitale italiana in un’orbita gravitazionale costantemente lontana dal centro, metaforicamente rappresentato benissimo dalla città di Roma, che, non a caso, viene sempre sfiorata ma mai vissuta veramente. Roma che è poi in senso stretto quella grande bellezza, emblema di una ricchezza interiore e di un senso di vita che è solamente visto da lontano ma anch’esso mai raggiunto a fondo.
C’è tutta la natura umana contemporanea nel film di Sorrentino, in un mondo diviso fra chi ne è tuttavia consapevole, pur senza fare sforzi per uscirne, e chi affannosamente pensa di potersi elevare al di sopra degli altri, salvo poi essere riportato bruscamente a terra durante una conversazione sul magico terrazzo con vista colosseo. Alla fine, però, devono tutti fare i conti con la natura della vita stessa, e facendo cadere tutte le maschere, quello che rimane è semplicemente un incoerente alternarsi fra brutti momenti di decadenza e sparuti cenni di grande bellezza. Come la suora, come Roma: ci passano a fianco senza che ce ne accorgiamo.
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