Di solito non scrivo di cinema…lo guardo.
In primis perché non ho le competenze per poterne parlare e poi perché trovo particolarmente difficile mettere per iscritto determinate sensazioni ed emozioni provate dopo la visione di un bel film. Sarebbe riduttivo se poi, spiegando il perché un film mi sia piaciuto, non passassi a ripercorrere la carriera di un regista, il filone di appartenenza, lo stile e tutto il resto. Inoltre, per fare un’analisi di questo tipo, ci vuole concentrazione, tempo e pazienza quindi preferisco scambiare qualche opinione con qualcuno affetto come me da questa bellissima patologia. Così guardo, leggo, vado al cinema e di solito non scrivo, leggo da altri…e mi basta.
Ma l’altra sera, dopo la messa in onda in televisione de “LA GRANDE BELLEZZA” a quell’ora folle, commettendo in tutti i sensi un’azione criminale nei confronti di un’opera d’arte e leggendo sui giornali e su internet i bla bla bla negativi di tantissimi miei compatrioti furiosi e arrabbiati neri di avere vinto l’Oscar, è venuta voglia anche a me di fare bla bla bla…quindi ho preso la penna e non ho finito più di scrivere.
Il film di Paolo Sorrentino, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, è una profonda ed incessante ricerca di spiritualità, d’ispirazione, di arte e di bellezza all’interno di una società, di un mondo soffocato dall’apparire e dall’ingordigia, di una vita passata su una terrazza chic a ballare una macabra danza con scheletri botulinati o a fare trenini che non portano in nessun posto, in un mondo dove ci son corpi che si nutrono lussuriosamente di altri corpi, dove tutto è decadenza, tutto è lecito, tutto è vizio, tutto è…niente!
Nella città eterna si consuma l’eterno conflitto tra spiritualità e peccato, nella Roma che fu ed è eterna, nell’Italia che fu ed è di Leonardo, Michelangelo, Dante, Mastroianni, Leopardi, Raffaello, Verga, Brunelleschi, Gassman, Verdi, De Sica, Magnani, Pirandello, Pasolini, Caruso, Manfredi, Rossellini, Sciascia, Manzoni, Totò, Pavarotti e Fellini assistiamo ad un allucinante, irrefrenabile ricerca dell’ispirazione persa, dell’antica purezza, della Bellezza…e nel Bel Paese questa, purtroppo, non la si trova più!
Tutto è diroccato come Pompei, guastato come la Chiesa, marcio come la politica, omertoso come la mafia, finto come la televisione, fatiscente come la cultura, agghiacciante come la Concordia, decadente come Roma…che nel film assume le sembianze di una diva morta.
Il film si apre con un preludio criptico che ha come assoluta protagonista la morte. È una calda mattina d’estate a Roma e, nell’aria, riecheggia straziante un canto funebre sospirato da alcune donne vestite di nero che con un’enfasi da tragedia greca ci conducono dritti dritti alla vita. Ed eccola qui la vita, la Dolce Vita, sbattuta in faccia da un urlo alla Munch, magistralmente eseguito da una donna ripresa in primo piano che, particolarmente presa dalla megafesta a cui sta partecipando, fa da sipario allo spettacolo sonoro e visivo che ci si para davanti.
Ed eccolo qui l’Amarcord glamour e post-moderno di Sorrentino. Sulle note di una bombata, remixata, modernizzata, orgasmatica “Ah…Ah…a far l’amore comincia tu!”, motivetto di una brillante Carrà di altri tempi e oggi innalzato ad inno nazionale di una tribù “arrapata”, la borghesia chic, il ceto ricco, la gente che conta, la bella società snob della “Roma da bere” sta facendo festa.
La potenza visiva di quest’orgia di corpi in movimento, le visioni surreali, la percezione grottesca e decadente dell’insieme e qualcosa che coinvolge totalmente lo spettatore. Sorrentino vede e sente tutto: cosce, culi, cocktail, sudore, risate sguaiate, tacchi, panze, cubiste, una donna incinta, gemiti, urla, cocaina, maschere, alcol, messicani, un chihuahua, e dopo aver visto anche la ex soubrette in pieno disfacimento psico-fisico (una coraggiosa Serena Grandi attrice di se stessa) per la prima volta appare lui, l’anfitrione, il festeggiato, che si gira ballando verso di noi.
Che faccia signori! Servillo in questa scena è magnifico. Il modo in cui balla, il modo in cui addenta la sigaretta, il modo in cui ride… lo si capisce subito che è il Re dei Mondani, e si rimane spiazzati quando subito dopo, mentre tutti attorno a lui muovono la “colita”, in una moviola che lo porta lentamente a ricoprire tutto lo schermo, lui e la sua coscienza c’informano che da piccolo, alla domanda: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?” la sua risposta era semplicemente: “L’odore delle case dei vecchi”. Quest’uomo era destinato alla Sensibilità…evidentemente qualcosa è andato storto!
Abbiamo appena fatto conoscenza con Jep Gambardella, re dei mondani e famoso scrittore che non scrive più da trent’anni!
Da questo momento in poi assieme a lui faremo un viaggio intimo dentro “l’apparato umano”, (per citare il titolo del suo primo e unico libro) che ci porterà in luoghi surreali e dissacranti come il supermarket del botulino dove all’interno di una scena d’ispirazione lynchiana incontriamo una vera e propria guida “corporale” che elargisce consigli e giudizi e che vuole essere chiamato amico o amore; ma anche in luoghi onirici e incantevoli alla scoperta dell’arte, delle radici, della purezza, dell’ispirazione, ed appunto della vera Bellezza. Ed ecco, quindi, i fenicotteri dinanzi ad un’alba romana, scena profonda e delicata che prende vita nella terrazza di Jep, teatro di tante feste mondane; o la giraffa durante una passeggiata solitaria notturna che l’illusionista fa sparire affermando che in fondo è solo un trucco…come lo è il cinema penso io. Incontriamo personaggi emblematici come la bella e rassegnata Ramona (secondo me figura allegorica di Roma peraltro interpretato da una Ferilli eccezionale) che nasconde al bizzarro padre la sua malattia che la porterà inevitabilmente alla morte.
Nel film c’è anche un senso di rimpianto di un qualcosa che è andato perduto, che non c’è più, che poteva essere ma che non è stato. E in tutto questo c’è il conforto di un ricordo, a quando si era puri e incontaminati. Ecco, quindi, che il ricordo in alcune esistenze reiette diventa rifugio e conforto, o forse prigione, come visivamente sottolineato dall’enorme peluche bianco dentro l’ufficio di Dadina in netto contrasto con la minuscola proprietaria, la figura o il ritorno al paese d’origine dell’affranto e deluso personaggio interpretato da Carlo Verdone o, ancora, la contessa che rivive la storia della sua illustre famiglia, ormai in decadenza, ascoltandola da una voce registrata di una guida museale.
Il film è tutto questo ma anche dell’altro, come spiegare il monologo di Jep sul Funerale, (la faccia della Ferilli che lo guarda fingere di piangere spiega tutto), o la bambina ostaggio delle follie psico-artistiche-snob dei galleristi che s’imbratta di colori per poi assumere la tonalità del grigio, il colore della sua infanzia, o la vita che ci passa davanti come un’opera d’arte attaccata alle pareti di un museo all’aperto, o la scena della “Santa” che dorme in camera di Jep. Sono scene che fanno vibrare, che lasciano dentro spunti di riflessione infiniti.
Il film finisce con l’intimo ricordo del protagonista: su una scalinata in pietra di una scogliera all’imbrunire incontriamo la sua Musa, il suo primo amore, e qui la percezione del tutto diventa personale, ognuno può scegliere la sua fine e Jep ci lascia col suo privato commiato: “Finisce sempre così, con la morte, prima però c’è stata la vita, nascosta sotto il bla, bla, bla, bla, bla…E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato: è l’uomo miserabile.”
Infine dopo tutto questo mio bla,bla,bla volevo solo dire che gli americani ci hanno visto giusto a premiare il film con l’Oscar e sono sinceramente orgoglioso che Paolo Sorrentino sia un talento italiano.
Cercavo la Grande Bellezza in questo film…e l’ho trovata.
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