Esiste quel genere di film (poche eccezioni, purtroppo o per fortuna) che è impossibile da recensire.
La grande bellezza è uno di questi.
Alzi la mano chi non si sia sentito tirato in causa, chi non si sia rispecchiato in un dato personaggio, chi non ha mai sentito il vuoto impossessarsi del nulla, chi non ha mai pensato di essere una caricatura di se stesso, chi non ha mai pensato di essere il miglior attore in circolazione, chi nasconde e cela il dolore dietro il sorriso, le convinzioni e le convenzioni.
5:37 minuti è il tempo che Jap Gambardella impiega per smascherare l'amica Stefania. Una vita intera Stefania, come lo stesso Jap, come ogni personaggio del film, come ognuno di noi, ha impiegato a costruire, alterare, occultare.
5:37 minuti vs un('apparenza di) vita.
E ci sarebbe da leggere un'ipocrita recensione di un ipocrita recensore, strapagato per non rovinare ancora di più l'immagine di una Roma, che rappresenta l'Italia, che rappresenta l'Europa, che rappresenta il Mondo?
Michael Andreas Helmuth Ende scrisse nel suo romanzo La storia infinita "Il Nulla dilaga, poiché esso è la disperazione che ci circonda. Io ho fatto in modo di aiutarlo, poiché è più facile dominare chi non crede in niente." Il film di Sorrentino ne è la più degna rappresentazione: crudo, diretto, mistico, affascinante, smaliziato... Vero.
L'ennesimo film che il pubblico fatica a capire, per non essere costretto a guardarsi dal di dentro.
L'ennesimo film disprezzato nella sua terra natìa e apprezzato all'estero poichè l'apparenza del perfetto cittadino e del buon padre di famiglia è più forte della realtà, e non può, non deve essere frutto di un italiano che distrugge l'apparenza di Roma, cuore dell'Italia.
L'ennesimo film criticato per la sua lentezza. Eppure, quanto può essere o meno palese che la vita è la conseguenza di una scelta veloce e diretta? Dosando il tempo, quanto è veloce l'autodistruzione fisica di un uomo, e quanto è veloce la conseguente alterazione psichica di questo?
Quanto è veloce la scelta di "sposare la povertà" e di consegnare la propria vita nelle sue mani?
Forse quanto un soffio sui fenicotteri, il pretesto repentino e veloce di emigrare e di partire, liberandosi di un'immobilità che stringe e costringe.
Potete recensirlo in qualsiasi modo ma forse il modo migliore è il silenzio. Silenzio di fronte alla grandezza di Roma, giudice della piccolezza dell'uomo, ed arbitro del gioco infantile ma sempreverde di nascondino.
La povertà non si racconta, si vive.
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