1960: Fellini dirige La dolce vita, caposaldo della cinematografia, uno degli emblemi del Belpaese nel mondo. 53 anni più tardi Paolo Sorrentino ne ricalca la magnificenza, riproponendo quell’ audace filone intriso nella quotidianità italiana fatta di mondanità, vizi e virtù che uniscono il sacro al profano e di quell’ eleganza assoluta contrapposta al trash, sceneggiando e dirigendo La grande Bellezza (Italia, 2013).
Il film di Sorrentino ha una trama leggera ma al contempo sofisticata, forse non per tutti i palati, senza per questo volersi assurgere ad opera snob rivolta ad un ceto specifico. Racconta, infatti, la decadenza della classe alto borghese italiana, quella cerchia di persone che fanno dell’ opulenza e dello sfoggio del lusso una ragion d’ essere, in un’ instancabile attività del far nulla trascorsa tra appartamenti con vista Colosseo, boutique esclusive e spese folli dallo specialista del botulino. Alla testa di questa ristretta umanità c’è il noto giornalista culturale d’ origine napoletana Jep Gambardella, egocentrico critico di costume dall’ accento impostato tipico del Vomero ma romano d’adozione, interpretato con maestria da un cinico Toni Servillo.
Jep impegna le sue giornate improduttive a passeggiare per strada con aria annoiata ancorché vissuta o sorseggiare scotch sull’ amaca fuori al terrazzo di casa mentre splendidi tramonti fanno da cornice agli scorci incantevoli della città eterna, in attesa che arrivi il prossimo party con tanto di “trenini che non portano da nessuna parte” (un po’ come la politica italiana di oggi) e canzonette italiche che scatenano ogni freno inibitorio di donne e uomini a cavallo tra gli “anta” appena iniziati ed una terza età avanzata. Si definisce re dei mondani, capace di decidere come e quando una festa debba terminare, spesso quando le persone “normali” si svegliano per andare a lavorare. Ex scrittore con all’ attivo un solo romanzo, L’ apparato umano (saggio di successo senza seguiti causa blocco dello scrittore), donnaiolo, veste eccentricamente elegante con doviziosa cura dei particolari, apre i dialoghi del film come voce narrante raccontando della risposta più frequente che dà agli amici quando gli chiedono cosa gli piacesse di più: “la fessa”. Ma la sua è una risposta di facciata, perché in realtà ama fare tutt’ altro rispetto a quanto gli riesce da 30 anni, come apprezzare l’ odore delle case dei vecchi. Lo squallore nel quale egli precipita insieme a tutti quei frequentatori seriali di feste mondane a base di drink e coca (e non parliamo della bevanda) funge da pretesto e non è il solo leit motiv del lungometraggio, i temi trattati sono anzi decisamente variegati. Il primo è la solitudine, della quale soffre il protagonista, il secondo la nostalgia, che affligge l’ amico fidato Romano (uno splendido Carlo Verdone); e poi si affronta il tema della vecchiaia, nel senso più nobile del termine, vista l’ età media degli innumerevoli personaggi che si alternano nell’ opera (Sorrentino vuole forse ricordarci che l’ Italia è un Paese demograficamente a crescita zero?).
Il filo conduttore del plot è la discesa nell’ inferno della noia e della malinconia di Gambardella avverso il quale la vita gli frappone continue rinunce. Con un altro pensiero fuori campo Jep fa sapere di aver deciso di “non voler più fare cose che non mi piacciono”, sparendo dal letto di Orietta appena sedotta ed abbandonata mentre una seducente Isabella Ferrari si apprestava a fargli vedere le sue foto sexy postate sui social. Ma è Roma a fargli terra bruciata intorno quando le persone a lui più vicine per vari motivi cominciano a scappare o morire. E’ il caso di Romano, ad esempio, l’ unico vero amico rimastogli, il quale, alle prese con un amore non corrisposto e con una carriera teatrale insapore, a un certo punto decide di tornare al paese d’ origine, visto che “Roma m’ ha molto deluso”. Il suo vicino di casa, un misterioso uomo d’ affari che verso la fine del film viene arrestato dalla DIA non prima che abbia rivolto per la prima volta la parola al giornalista, dicendo che “sono quelli come me che fanno girare l’ economia italiana!”. E poi c’è Ramona, la non più giovanissima spogliarellista in crisi affettiva con la quale instaura un sereno rapporto platonico, interpretata da una discreta Ferilli ancora in piena forma fisica. Morirà senza troppe spiegazioni, lasciando al povero Jep un’ enorme amarezza. L’ unico a restargli vicino è Lello, imprenditore dedito alla prostituzione con una moglie consapevolmente cornuta.
Ma Sorrentino ci parla anche delle origini, quelle radici che “sono importanti” e rappresentano cibo per Suor Maria, la cosiddetta Santa, altro personaggio chiave che entra in scena nella seconda parte del film (meno onirica e più movimentata), laddove il regista partenopeo si dedica al lato oscuro della Chiesa e delle religioni (e siamo al quinto tema trattato). Come non citare la sequenza del fenicotteri sul terrazzo di Jep che ha tanto di poetico o il personaggio del Cardinale Bellucci, vescovo in odore di pontificato, che non sa dispensare risposte alle inquietudini spirituali del protagonista ma che, anzi, si ripete ridondantemente in spiegazioni culinarie che non interessano nessuno. La svolta avviene con quel ricordo non dispensato nella sua interezza a Ramona, inerente quell’ amore di 35 anni prima e di quella prima volta sugli scogli di un faro all’ Isola del Giglio e di quella grande bellezza che lui non è più riuscito a ritrovare, Elisa. Quella ragazza diventata donna e moglie di tale Alfredo, il quale si presenta un giorno a casa di Jep informandolo che è morta e che in realtà ha sempre amato lui. Un amore interrotto per ragioni non spiegate, mai dimenticato, mai sopito ma che rende malinconico e cinico un uomo fascinoso, di terza età, qualunquista all’ occorrenza ma schietto fino al midollo. Il monologo nei confronti della scrittrice esistenzialista Stefania (bravissima la Galatea Ranzi) è da cineteca, un massacro bello e buono nei confronti di quell’ assurdo sport del lamentarsi del superfluo (“tu che hai 3 baby sitter, in quale misura sai cosa sono i sacrifici?”) e di quelle autodefinitesi “donne con le palle” che, oggettivamente, hanno proprio stancato.
Ciò che fa grande questo lungometraggio (destinato a dividere) è soprattutto il primo quarto d’ ora, dove una serie di sequenze incrociate riprendono Roma da angolazioni disparate con giochi di luce bellissimi e colonna sonora sorprendente, senza dialoghi, ma solo una serie di piccoli eventi interrotti da un urlo liberatorio che ci conduce nel mondo delle feste e del 65mo compleanno dell’ ex scrittore. Sorrentino fa certamente sfoggio della bravura che sa di avere, utilizzando tecniche registiche già viste in Le conseguenze dell’ amore e in This must be tha place (altri due capolavori con un campionario di personaggi dalla vita incompiuta). Il talentuoso cineasta non potrà negare di essersi ispirato, oltre che a Scorsese e Fellini, anche al Kubrick di Shining, per quei bambini che corrono nel labirinto-giardino e per la ragazzina pittrice che immagina se stessa inondata di pittura a distanza di pochi minuti (e che, in preda ad una scenografica follia, dipinge un’ opera astratta solo perché costretta dai familiari che speculano sul suo talento), ma anche di Eyes wide shut (per la presenza di certe ritualità in un contesto dove i nudi, femminili ma anche maschili, non mancano). Un lungometraggio che deve molto della sua attrazione visiva alla bravura di Luca Bigazzi, straordinario direttore di una fotografia semplicemente perfetta. I dialoghi sono spesso prolissi, ma volutamente tali; non ci si può non chiedere se non fosse stato opportuno proporre, per Jep, una parlata più fluida e con una dizione più marcata, anche se quel “mangiarsi” le consonati e quel chiudere in anticipo la parola rappresentano una scelta ricercata e perfettamente in linea con il personaggio, che quando narra fuori campo si presenta invece con un altro stile fonetico. Eccessivi sono anche i cambi di costume di Gambardella, ne sarebbero bastati 5 al massimo.
La grande bellezza è stato troppo frettolosamente etichettato come commedia all’ italiana da una parte della critica nostrana che non ha saputo apprezzare quelle inquadrature stilisticamente perfette che vediamo lungo tutto il film; una critica che si è fermata alle note casarecce della Carrà ma non a quelle ecclesiastiche di I lie dei Torino Vocalensemble che aprono e chiudono il film; una disattenta analisi che ha ironizzato della presenza antropologicamente autobiografica di Serena Grandi senza valutare il fatto che sia stato un escamotage narrativo utile per lavare i panni sporchi di casa nostra agli occhi del mondo, per esorcizzare i nostri viziacci e raccontare di come si possa cadere tristemente in disgrazia pur avendo tutto (fascino, soldi, amici veri o presunti).
Il futuro è bellissimo, dice Servillo verso la fine. E allora guardiamo al futuro con maggiore consapevolezza e con meno autolesionismo, scrolliamoci di dosso quell’ eterna mediocrità che ci fa avere paura di affermare che questo è un capolavoro. Sorrentino ha fatto ritornare l’ Italia ai livelli che gli competono, noi che di Cinema avevamo tanto da insegnare. Certo, questo è un capolavoro che dissacra una parte della società italiana, ma in ogni grande Paese se non c’è autocritica non c’è miglioramento, non c’è crescita.
Voto al film: 8 e mezzo (ogni riferimento a titoli passati non “è un trucco”).
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