La macchina da presa plana su Roma, lenta e pacata scende sulla vita accompagnata da un coro di voci femminili materne e calde, in sorvolo sulla bellezza tutta turistica della città, talmente prorompente da provocare un infarto al giapponese che la fotografa felice, pare, di morire tra le sue rovine.
D’un tratto tutto apparentemente ruota intorno a dei ritratti caricaturali, bozzetti viventi, goffi individui senz’anima, vittime dell’insoddisfazione che si nutre di monotonia, forme di vita circensi di questo circo triste da -La strada- dove manca solo –Zampanò- pronto a rompere le catene della noia restandone invece imprigionato.
Mentre la regia continua a regalarci magici stilemi “griffati Sorrentino” la festa procede in questa odierna tribù felliniana dove tutto si è ancora più degradato, anche lei Serena Grandi, ex soubrette che esce clownesca dalla torta ma che in –La bella confusine- (titolo poi sostituito da 8/2) sarebbe stata costretta a
–salire al piano di sopra-.
Anche qui, come nel miglior Fellini, c’è Roma, le sue fontane, le sue chiese, le sue strade e le prostitute ed ancora movida, così in questa bizzarra ode a Federico e alla più alta letteratura, tutto si velocizza per incastrarsi tra flash-back di lui Jap (Toni Servillo che in questo film riesce ancor più ad affascinare ed incantare con la sua forte presenza attoriale e sensoriale così alta, così maschia e tanto sensibile) ora ex rampollo che a 65 anni dichiarati (almeno 70 dimostrati) avvicinandosi all’ingresso dell’altro mondo, ha timori e rancori, così chiede un esorcismo come fosse un passaggio in macchina a questo cardinale che superficialmente pensa soprattutto a cucinare ogni cosa, anche le radici di cui la Santa si nutre, e ricorda sempre lui Jep, quel bacio mancato in quel momento con la luna piena la stessa de -La voce della luna- in questo carosello caotico de -La dolce vita- di -Giulietta degli spiriti- ed ancora
-Amarcord-. Così il grande rimpianto diventa bellezza:
-… che si fugge tuttavia/ chi vuol essere lieto sia/ del doman non v’è certezza…-
Colto e malinconico con qualche instabilità, questo film ricostruisce luoghi comuni grazie anche alla forte azione critica, veicolo di una denuncia in sordina che riesce a comunicare una – sensazione di irrisolvibile – come lo stesso Sorrentino dirà in una sua intervista, un irrisolvibile dunque indossato da questi personaggi moraviani stanchi e nevrotici, eppur in cerca di senso (se mai esso da qualche parte sia).
Eccezionale Carlo Verdone che riesce a sdoganare il dejà-vous a volte artificioso, cucitogli addosso, per reinventare un odierno ed attempato ragazzotto che cerca applausi e approvazioni per poi far ritorno alla terra madre.
Immancabile –er cuppolone- con il cameo di dubbio significato di Antonello Venditti e poi la romanità involgarita e depressa da questa soffocante calma piatta enfatizzata dalla Ferillona che ostenta un romanaccio da spot pubblicitario, mentre vederla passeggiare tra le mura di una Roma segreta e privata è voler profanare il tempio dove Sorrentino consegna le chiavi in mano al suo popolo/pubblico.
Per un momento ancora si assapora Fellini con un omaggio ancor più folle, ancor più onirico dove al posto della Nannarella che sorridente dice:
-A Federì ma vattene a dormì-
c’è l’incanto dell’incontro con Fanny Ardant che sussurra elegante un semplice:
-Bonne nuit.-
La sceneggiatura continua ad esplorare a volte implodendo, viaggia ed invade confini e ritmi fino a percorrere direzioni diverse, storie diverse di un film da gustare con una tranquillità fanciullesca come suggerisce la bravissima Giovanna Vignola nel ruolo di Anna La Rosa direttrice del giornale dove lavora Jep. In una riunione calda e conviviale gli domanda materna:
-Ti è piaciuto il minestrone Geppino?-
lui emozionato risponde:
-era tanto tempo che qualcuno non mi chiamava più così!-
lei conclude:
-i veri amici ogni tanto hanno l’obbligo di farci tornare bambini!-
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