A primo impatto, è difficile sottrarsi al richiamo dei precedenti illustri cui in qualche modo il film si aggancia. Ovvio il rimando al cinema di Fellini, che con il suo stile espressivo ed il modo personale di rappresentare e staffilare la realtà ha influenzato gran parte del cinema successivo, in Italia come all'estero. Anche qui i personaggi principali o di contorno sono maschere, non dipinte o incipriate ma in carne ed ossa, comunque rappresentative di tipologie (o patologie) umane. La maschera di Servillo, solcata da rughe mobili e plastiche come gommapiuma che da sole dispiegano un’incredibile varianza espressiva (sotto cui alligna una multiforme perrsonalità), ne è un esempio. Detto questo, c'è una differenza profonda tra la denuncia felliniana di La dolce vita (e Roma) e quella di Sorrentino: la prima è fortemente "localizzata" su Roma, sulla borghesia frivola del jet set e dei paparazzi che scorazzano per Via Veneto, la statua di Cristo che atterra in pieno San Pietro, la Vamp bella ma volatile che valorizza con le sue forme la magia di Fontana di Trevi. Inimmaginabile ambientare altrove quelle storie partorite dalla mente del grande Federico. Per Sorrentino Roma è il grande palcoscenico in cui far muovere i suoi personaggi, scelta per dare corpo ad un esempio difficilmente sostituibile di Grande Bellezza; ma il racconto di per sè ha una validità che trascende la specifica ambientazione.
La linea narrativa (difficile parlare di una storia vera e propria) si snoda su due piani, ovviamente collegati: quello statico del contesto, immobile nella sua zoologia umana anaffettiva, vuota, senza colori interiori, senza obiettivi che non siano quello di fare gruppo per alimentarsi reciprocamente di una verbosità (o di silenzi-assensi) inconcludente; l'altro è il percorso dinamico di Jep Gambardella, 65enne tardivamente in procinto di voltare l’angolo della sua vita. Vita vissuta in mezzo ai "senza": senza scossoni, gratifiche evolutive, arricchimenti che vadano oltre il potere "di partecipare alle feste per farle fallire". Vita che diventa nuovo percorso di ricerca di uno stimolo per ritrovare il bandolo di una matassa interrotta anni prima, quando, dopo aver scritto un solo libro senza successo dal titolo significativo (L'apparato umano, che sottende una visione limitata alla mera fisicità dell'uomo), Jep si è fatto monarca senza rivali delle notti romane festaiole e spensierate (nel senso di prive di ogni pensiero significativo), annegando nel vuoto pieno solo di "apparati umani" in movimenti senza senso, marionette di se stessi condannate ad una eterna ripetizione rituale.
Jep si disvela per un grande, perchè sa di essere un “vuoto” diverso dagli altri in quanto consapevole di esserlo ed in fondo, avendo sperimentato il “pieno”, non accetta di continuare ad essere vuoto per sempre. Così non si limita a fare passivamente gruppo, ma si misura con gli altri denigrando attraverso il fioretto o la spada coloro in cui vede la propria immagine riflessa: affonda i colpi non tanto verso gli uomini del contesto, irrilevanti (come il performer che non sa come definire le proprie vibrazioni) o silenti (come il poeta, assorto e assente) o indolenti anche nel fare sfoggio di vacuità, ma verso le donne che –mettendosi comunque in gioco- preferiscono ostentare il proprio poco di buono nascondendo il tanto di non edificante: l'attacco alla donna del Partito è uno dei momenti più violenti e trainanti dell'intero film. Ma Jep, lungi dall’essere misogino, sa distinguere le donne di valore, che rispetta e stima: sono quelle fuori dal coro, fuori dalla Terrazza, le "diverse", come la sua direttrice editoriale, nana, non sensuale ma affabile, intelligente e volitiva, la colf sudamericana, lontana dalle depravazioni e dall'amoralità degli ospiti festanti, e soprattutto la spogliarellista popolana e ruspante, bellissima e sensuale ma triste e sola, con cui Jep instaura un rapporto di padre-figlia, ignorando il suo terribile segreto fino al momento della sua scomparsa.
Jep sa di essere un attore, più grande degli altri, ma resta una maschera, e come lui sa smascherare i più cani, così qualcuno più abile di lui potrebbe fare altrettanto nei suoi confronti; è il prestigiatore (o la sua vittima) che, tra i ruderi (umani) può far scomparire la giraffa (che è anche un microfono per i recitanti). Per questo, per darsi un'essenza credibile ed incancellabile, per uscire dal recinto dei mediocri e debordare verso l'”altrove”, non può accontentarsi della Grande Bellezza della sua città, splendida, ineguagliabile nei suoi colori, ma irrimediabilmente inquinata dalle chiazze stinte ed indelebili della pochezza umana. La delusione lo induce ad inseguire un'altra Grande Bellezza, quella che lo ha illuminato e segnato in gioventù e che l'ha abbandonato senza dire perchè (e neanche il suo successivo compagno e marito gliel'ha saputo spiegare). Solo un viaggio a ritroso può ridargli quella sensazione; il passato non può tornare come esperienza , ma può restituire i suoi sapori. E tornando a quei sapori, alla percezione a tutto campo della Grande Bellezza di quella ragazza che si spoglia in tutta la sua incontaminata soavità, Jep ritroverà il senso di una nuova vita vuota di vuoto e piena di orizzonti più lontani. E forse riprenderà a scrivere qualcosa su una realtà umana che travalichi i suoi "apparati" e spazi in una dimensione non solo fisica ma pervasa anche di sana ultramaterialità; quella spiritualità che invano ha cercato di cavare dal vacuo cardinale tutto preso dai piaceri della gola.
Sorrentino dimostra ancora una volta di essere un grande regista, cioè un grande facitore di immagini, a tratti un grande poeta, e, sulla scia del suo penultimo film "americano", padroneggia alla perfezione i passaggi dal realismo mondano al surrealismo, al simbolismo, al funambolismo significante, facendo volteggiare la macchina da presa nelle più diverse angolazioni; come se ci ricordasse che la realtà ha molte facce e molti punti di vista. La sua denuncia talvolta usa l'accetta, sempre elegante ed affilata, tal altra il bisturi dell'ironia, della satira raffinata; in ogni caso rifugge dalla banalità. Dà corpo ad un apologo sulla rassegnazione di una società opulenta –fatta di chi pure avrebbe la possibilità di non affogarvi- che riesce ad imbruttire con la propria mediocrità tutto ciò che, in natura o per mano umana, offre spunto di nobilitazione e si denuda di qualsiasi potenzialità di riscatto. Ma l'uomo non trascina con sè nel mare omologante l'ntera umanità, e dai suoi bassifondi emerge sempre qualcuno disposto a non accontentarsi del suo niente per tentare la risalita.
E' un film perfetto La Grande Bellezza? No, non lo è. Qualcuno ha detto non a torto che è un po' troppo estetizzante, compiacente, ma lo stesso Sorrentino ammette il suo narcisismo, laddove ci fa vedere Jep che scorre assorto la serie di fotoritratti affiancati, uno per ciascun giorno di vita, messi in mostra dal fotografo-artista: come dire che tutti gli artisti sono narcisisti, se consapevoli del credito che offre loro il proprio estro una volta messo a disposizione del pubblico.
Inoltre la parte finale pecca di eccessiva lunghezza, e soprattutto abbonda di inutilità, con alcuni elementi narrativi ( la vecchia santa e l’invasione delle gru) superflui ed un po' fragili; ma resta comunque un’opera di alto livello artistico che si presta a riflessioni che vanno oltre le gozzoviglie e la stupidità umana, qui spalmata un po' su tutti i ceti (a differenza di quella socialmente circoscritta nella Dolce vita o nel recente Grande Gatsby). E soprattutto è un film che vibra di un pensiero profondo, e rivela l’impostazione letteraria di un autore che è diventato anche uno scrittore di successo.
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