Synecdoche, New York

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Un film di Charlie Kaufman. Con Philip Seymour Hoffman, Samantha Morton, Michelle Williams, Catherine Keener, Emily Watson.
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Commedia, durata 124 min. - USA 2008. - Bim Distribuzione uscita giovedì 19 giugno 2014. MYMONETRO Synecdoche, New York * * * - - valutazione media: 3,02 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

l'uomo e la sua moltitudine Valutazione 4 stelle su cinque

di pepito1948


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martedì 1 luglio 2014

La sineddoche è una figura retorica con cui un’espressione (o parola) può essere sostituita da altra senza alterarne il significato do fondo, con il semplice cambio di una o più elementi. Applicata alla figura umana, essa ci dice che l’uomo è moltitudine, è un fascio di essenze, una pluralità di facce ognuna delle quali può esprimere il tutto, lo stesso tutto. Il tutto si sdoppia, si ricompone per mostrare un altro sé dal sé di prima, in una girandola di mutanti tutti diversi ma tutti veri perché fanno parte della stessa realtà umana. Stretta parente è un’altra figura, l’ossimoro, che esprime un principio di vita basilare come la dinamica degli opposti, delle contraddizioni che caratterizzano i nostri movimenti interni.
Caden è questo, è uomo molteplice pieno di contraddizioni, che vive diversamente i rapporti con le “sue” donne, è un regista di successo di una compagnia teatrale, che dirige i suoi lavori con autorevolezza ma non riesce a dirigere se stesso, vaga sperdendosi in relazioni che non lasciano il segno e in un tempo di cui sembra aver smarrito la percezione, è solo in mezzo a moglie in fuga, psicologhe evanescenti, figlie perdute e presto sfiorite come un petalo viola che si stacca da un ormai freddo tatuaggio floreale, attori ed assistenti in perenne attesa della sua prossima mossa. Caden  cerca di dilatare l’attesa della morte –dondolandosi tra l’ansia del rinvio e la consapevole immanenza-, ai cui richiami risponde con manifeste somatizzazioni ipocondriache, cercando affannosamente di dare un senso agli ultimi sprazzi di vitalità e di uscire di scena con un grande colpo finale. Improvvisa quindi uno spettacolo in un enorme capannone, in cui attori e personaggi, in un intricato gioco di scatole cinesi, si scindono e si ricompongono, e lui stesso dà la sua parte ad un clone in carne ed ossa che agisce, recita e  dirige  come lui ed al suo posto, secondo un processo di sdoppiamenti in cui teatralità e realtà si invadono in un’aura di sospensione. Io sono io e qualcun altro è me, perchè sa interpretarmi meglio di quanto io non sappia fare, sembra dirci pirandellianamente. Caden presagisce l’epilogo quando il suo clone scompare, la performance si allunga senza conclusione, conquista un’intesa rassicurante con una donna che sembrava destinata ad essere solo di passaggio, e affida l’ultimo se stesso, ormai ridotto a comparsa, a colei che lo dirigerà, quasi come un robot, sino alla fine, non senza aver conosciuto nel tratto finale del suo cammino il destino amaro delle presenze importanti della sua irrisolta vita.
E’ un film che non consente confronti, la cui estrema complessità impedisce di seguire passo passo lo svolgersi multilineare della narrazione, se non per sequenza di sensazioni, come una linea fatta di punti separati che alla fine acquista una sua contituità significativa. E’ un film struggente come lo è la figura grossa, panciuta, goffa ma maestosa di Seymour Hoffmann, che ha chiuso la sua vita cinematografica nella rappresentazione bellissima nella sua  triste tragicità di un preludio di ciò che sarà qualche anno dopo. Rivediamo l’Hoffman di Magnolia che assiste il vecchio Jason Robards –già gravemente malato- sul letto di morte, mentre sotto ossigeno ripercorre la sua travagliata vita; qui l’immagine si capovolge, e Caden ormai prossimo al traguardo respira le ultime boccate di ossigeno, assorto come davanti allo schermo senza sonoro di una sala vuota e in penombra: fine del percorso, fine della sineddoche, fine del vissuto. Formidabile.

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