bartleby corinzio
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sabato 17 novembre 2012
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film affascinante, folle o assolutamente normale
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Ci sono personaggi in cerca d'autore e autori in cerca di personaggi, ci sono personaggi che interpretano l'autore che li ha scritturati per interpretarlo e magari anche auto-dirigerlo. Tutto questo accade sì nel mondo dell'arte ma anche, e forse con maggior "recita" nella vita reale. Così come quando il personaggio che va in crisi trova il sostegno dell'autore, che ne suggerisce le contromosse, allo stesso modo l'autore che va in crisi si issa - o magari semplicemente si appoggia - sulle spalle dei suoi personaggi. La crisi di un autore è in fondo la crisi di una vita. Il quotidiano esser in crisi, il momento critico che, come suggerisce il filosofo Derrida, forse intacca già lo svolgimento del processo simbolico.
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Ci sono personaggi in cerca d'autore e autori in cerca di personaggi, ci sono personaggi che interpretano l'autore che li ha scritturati per interpretarlo e magari anche auto-dirigerlo. Tutto questo accade sì nel mondo dell'arte ma anche, e forse con maggior "recita" nella vita reale. Così come quando il personaggio che va in crisi trova il sostegno dell'autore, che ne suggerisce le contromosse, allo stesso modo l'autore che va in crisi si issa - o magari semplicemente si appoggia - sulle spalle dei suoi personaggi. La crisi di un autore è in fondo la crisi di una vita. Il quotidiano esser in crisi, il momento critico che, come suggerisce il filosofo Derrida, forse intacca già lo svolgimento del processo simbolico. Processo simbolico che in Synecdoche, New York è dato dall'opera teatrale messa in cantiere dal regista (Caden Cotard) interpretato da Philip Seymour Hoffman. Opera che non fa altro che narrare la vita stessa di Cotard nell'immediatezza del suo esistere. Pedinare il proprio esistere e, ad un certo punto in un eccesso di sé su di sé "auspicare lo scacco della cerimonia che si sta dirigendo".
Di cosa parla Synecdoche, New York? Di un regista teatrale, Caden Cotard che vede perdere l'amore di sua moglie e la paternità di sua figlia. Una perdita di fondamenta ove persino la casa attacca il suo proprietario. Che fare? Che fare nel mentre? Lavorare. Lavorare ad uno spettacolo teatrale che piano piano diventa l'imponente rappresentazione della vita del regista nel suo svolgersi giorno per giorno. Mettere in scena, giacché come suggerisce il Nietzsche che riflette sulla tragedia greca "solo come fenomeno estetico l'esistenza e il mondo appaiono giustificati" in quanto "l'arte non è solo imitazione della realtà naturale, bensì proprio un supplemento metafisico della realtà di natura, posto accanto a questa per superarla".
Un film oggettivamente non semplice. Non può esserlo. E non può esserlo perché per narrare quello che narra è costretto ad usare un linguaggio non comune. Il linguaggio del soggettivo ove l'apparenza è simbolismo e dove l'irreale diviene la struttura più conforme. Solo inoltrandoci con una sorta di mini epoché fenomenologica, ossia con una sospensione del giudizio, possiamo assorbire l'idea che la bambina di Caden faccia la cacca verde ("Mamma cosa ha la mia pupù?" "Niente tesoro, è solo verde"), che sua moglie parta per una mostra che si rivelerà lunghissima, che Hazel (l'ex bigliettaia al botteghino del teatro) vada a vivere in una casa che va in fiamme ("Comprare una casa fa sempre paura?" "E specialmente una con il fuoco"), che il saggio di una psicoanalista sia così arguto da descrivere il presente vissuto lì e ora -hic et nunc- del lettore proprio mentre lo legge, e ancora le buffe incomprensioni dovute a giochi di parole (intraducibili in italiano ma niente paura il film in Italia non è mai uscito), gli assurdi scambi di persona. E poi altro, tanto altro ancora in questo film sull'arte? Sul vero? Sulla morte? Sull'amore? Sulle relazioni? Sulla solitudine? Sul cinico scorrere del tempo e sulla non indispensabilità di ognuno?
Caden come il protagonista de L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett (citato nel film) ove allo scrittore si sostituisce il regista e alla stanza si sostituisce il set. Caden in antitesi alla concezione di teatro data da Jerzy Grotowski (citato nel film) ma accomunato dal suo seguire gli attori nonché il suo esser pedinato dagli attori fino agli esiti più estremi.
A tutto questo si aggiunga un cast invidiabile: Phillip Seymour Hoffman, Samantha Morton, Michelle Williams, Catherine Keener, Emily Watson e Tom Noonan, innanzitutto.
Film affascinante, inconsueto, folle o assolutamente normale. Così come nella normalità del quotidiano l'eccentrico risieda nelle nostre multiformi idiosincrasie.
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jaylee
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martedì 1 luglio 2014
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la vita vista da dietro le quinte
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Gli scrittori scrivono per se stessi? gli attori recitano per se stessi? i registi dirigono per se stessi? Esiste un’arte fine a se stessa dove l’autore è il principale fruitore e gli altri sono spettatori dell’autore stesso?
Domanda a cui Charlie Kaufman, celebrato e originale sceneggiatore (suoi Se Mi Lasci Ti Cancello – titolo italiano da denuncia penale – Confessioni di Una Mente Pericolosa e Essere John Malkovich) cerca di dare una risposta sia all’interno del film, sia come scelta narrativa. Se la cosa vi può sembrare non chiara, infatti non lo è: Synecdoche, New York, il cui titolo (fusione di Shenectady, dove si svolge l’inizio del film, e la forma retorica Sineddoche) è già ermetico, non è un film semplice.
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Gli scrittori scrivono per se stessi? gli attori recitano per se stessi? i registi dirigono per se stessi? Esiste un’arte fine a se stessa dove l’autore è il principale fruitore e gli altri sono spettatori dell’autore stesso?
Domanda a cui Charlie Kaufman, celebrato e originale sceneggiatore (suoi Se Mi Lasci Ti Cancello – titolo italiano da denuncia penale – Confessioni di Una Mente Pericolosa e Essere John Malkovich) cerca di dare una risposta sia all’interno del film, sia come scelta narrativa. Se la cosa vi può sembrare non chiara, infatti non lo è: Synecdoche, New York, il cui titolo (fusione di Shenectady, dove si svolge l’inizio del film, e la forma retorica Sineddoche) è già ermetico, non è un film semplice.
Caden Cotard, regista di provincia, viene abbandonato dalla moglie, che si trasferisce a Berlino con la figlia; vince però un importante vitalizio per meriti artistici, che gli darà la possibilità di mettere in piedi uno spettacolo che durerà tutta la vita, ricreando la sua vita in una Shenectady in miniatura (seppure enorme, ed ecco il riferimento alla Sineddoche di cui sopra) all’interno di un magazzino. All’interno vi recitano tutte le persone della propria vita (sulla base dei suoi input), alla fine sostituirà anche se stesso, per poi infine prendere lui stesso un ruolo completamente diverso.
Valeva davvero la pena recuperare al cinema un film del 2008 come questo, o si è trattato di un’operazione “commerciale” (ed il termine è assolutamente inappropriato visto questo film, vi assicuriamo) per sfruttare la performance di uno dei migliori attori degli ultimi vent’anni, Philip Seymour Hoffman, e scomparso quest’anno? Difficile essere definitivi, ma probabilmente questo secondo aspetto ha influito molto: si tratta di un film dallo sviluppo spesso incomprensibile, con un inizio più realistico e una seconda parte dove, attraverso l’espediente della malattia (degli occhi) avvenimenti, cronologia, elementi visivi (vedi la casa in fiamme di Hazel) trascendono la verosimiglianza con la realtà, quasi fosse un “realismo magico” di Marqueziana memoria. Peraltro, nota di merito per un cast femminile assolutamente stellare (Catherine Keener nella parte della moglie, Samantha Morton nell’eterna amante Hazel, e poi Jennifer Jason Leigh, Emily Watson, Hope Davis…).
In qualche modo, Synecdoche, New York esemplifica perché non tutti gli sceneggiatori diventano registi: il film si presenta come un luna park di intuizioni e filoni narrativi, dove evidentemente Kaufman ha dato sfogo a tutta la sua fantasia (e qui ci sono idee degne del miglior David Lynch), ma in un modo che alla fine risulta poco organico rispetto alla narrazione stessa. E, sebbene sia bella l’idea come possa essere irresistibile crearsi un mondo parallelo dove tutto va come lo desideri; nonostante alcuni dialoghi davvero notevoli che risuonano profondi e amarognoli (e qui è il marchio di fabbrica di Kaufman); ebbene, il prodotto finale risulta parecchio cerebrale e indigesto, laddove manca quasi una sintesi complessiva, che evidentemente è il lavoro del regista. E, nonostante non si possa non rimanere impressionati dalla quantità di idee e di potenziale (inespresso), qui non ci siamo, sorry.
Con una metafora scolastica, visto il periodo: non so se sia rivedibile (io non me la sentirei, almeno in tempi brevi), ma di certo più che rimandato. (www.versionekowalski.it)
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filippo catani
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lunedì 23 giugno 2014
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il teatro della vita
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Uno sceneggiatore teatrale, a seguito del suo ultimo successo teatrale, vince un importante premio che gli mette a disposizione una forte somma di denaro. L'uomo decide allora di lanciarsi in una nuova produzione che dovrà rappresentare la sua vita. Nel frattempo lo sceneggiatore viene abbandonato dalla moglie che va a Berlino con la figlia.
Senza dubbio un film difficile ma questo non deve assolutamente scoraggiare lo spettatore. Certo Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello si seguivano decisamente meglio. Quì Kaufman mette letteralmente in scena la vita e l'impossibilità di rappresentarla in quanto essa è sempre in continua evoluzione e non può mai essere imbrigliata.
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Uno sceneggiatore teatrale, a seguito del suo ultimo successo teatrale, vince un importante premio che gli mette a disposizione una forte somma di denaro. L'uomo decide allora di lanciarsi in una nuova produzione che dovrà rappresentare la sua vita. Nel frattempo lo sceneggiatore viene abbandonato dalla moglie che va a Berlino con la figlia.
Senza dubbio un film difficile ma questo non deve assolutamente scoraggiare lo spettatore. Certo Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello si seguivano decisamente meglio. Quì Kaufman mette letteralmente in scena la vita e l'impossibilità di rappresentarla in quanto essa è sempre in continua evoluzione e non può mai essere imbrigliata. Soprattutto non si può vivere seguendo un copione. Ad un certo punto ai personaggi principali si sovrappongono attori che interpretano attori e via dicendo. Un film che riflette anche sull'amore e sugli affetti familiari e che dissemina anche momenti di sana ironia. Questa pellicola non fa che aumentare il rammarico per la tragica e prematura scomparsa di Seymour Hoffman anche quì semplicemente strepitoso nella sua interpretazione anche se tutto il resto del cast non sfigura affatto. Arrivato in Italia con sei anni di ritardo e mandato allo sbaraglio nel periodo estivo, tutto questo ci interroga per l'ennesima volta sulla distribuzione made in Italy: che si volesse provare a sfruttare l'onda emotiva della scomparsa di Hoffman? A pensar male a volte ci si azzecca. Un film comunque da vedere almeno un paio di volte per poterne apprezzare a pieno il contenuto.
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vincenzo ambriola
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venerdì 20 giugno 2014
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virtualità visionaria
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La vita di Caden, un affermato regista teatrale, è sconvolta dall'abbandono della moglie e della figlia che si trasferiscono a Berlino. Inizia così un calvario scandito da malattie vere e immaginarie, relazioni affettive accettate e vissute senza entusiasmo. Il tutto all'interno di un grandioso progetto teatrale che si protrae per un ventennio, senza mai andare in scena. I temi affrontati in questo film da Kaufman sono numerosi: la depressione, il rapporto con la morte e con il corpo, la schizofrenia e l'ossessione ripetitiva, lo stesso concetto di cinema e di teatro. Colpisce la costruzione logica della trama, con l'iniziale replica dei personaggi reali con attori che li interpretano, con il successivo scambio tra attori e personaggi, fino ad arrivare all'eliminazione della realtà a favore della finzione.
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La vita di Caden, un affermato regista teatrale, è sconvolta dall'abbandono della moglie e della figlia che si trasferiscono a Berlino. Inizia così un calvario scandito da malattie vere e immaginarie, relazioni affettive accettate e vissute senza entusiasmo. Il tutto all'interno di un grandioso progetto teatrale che si protrae per un ventennio, senza mai andare in scena. I temi affrontati in questo film da Kaufman sono numerosi: la depressione, il rapporto con la morte e con il corpo, la schizofrenia e l'ossessione ripetitiva, lo stesso concetto di cinema e di teatro. Colpisce la costruzione logica della trama, con l'iniziale replica dei personaggi reali con attori che li interpretano, con il successivo scambio tra attori e personaggi, fino ad arrivare all'eliminazione della realtà a favore della finzione. Un processo estremizzato, certamente, che riprende il tema dell'estraneazione e dell'abbandono, in una società che sempre più predilige gli avatar, le proiezioni virtuali nelle reti sociali, l'interazione remota a quella diretta. Girato nel 2008, quando questi fenomeni erano allo stato embrionale, Synecdoche anticipa la sostituzione di una parte della persona (virtuale) con il tutto (fisico e spirituale).
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pepito1948
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martedì 1 luglio 2014
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l'uomo e la sua moltitudine
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La sineddoche è una figura retorica con cui un’espressione (o parola) può essere sostituita da altra senza alterarne il significato do fondo, con il semplice cambio di una o più elementi. Applicata alla figura umana, essa ci dice che l’uomo è moltitudine, è un fascio di essenze, una pluralità di facce ognuna delle quali può esprimere il tutto, lo stesso tutto. Il tutto si sdoppia, si ricompone per mostrare un altro sé dal sé di prima, in una girandola di mutanti tutti diversi ma tutti veri perché fanno parte della stessa realtà umana. Stretta parente è un’altra figura, l’ossimoro, che esprime un principio di vita basilare come la dinamica degli opposti, delle contraddizioni che caratterizzano i nostri movimenti interni.
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La sineddoche è una figura retorica con cui un’espressione (o parola) può essere sostituita da altra senza alterarne il significato do fondo, con il semplice cambio di una o più elementi. Applicata alla figura umana, essa ci dice che l’uomo è moltitudine, è un fascio di essenze, una pluralità di facce ognuna delle quali può esprimere il tutto, lo stesso tutto. Il tutto si sdoppia, si ricompone per mostrare un altro sé dal sé di prima, in una girandola di mutanti tutti diversi ma tutti veri perché fanno parte della stessa realtà umana. Stretta parente è un’altra figura, l’ossimoro, che esprime un principio di vita basilare come la dinamica degli opposti, delle contraddizioni che caratterizzano i nostri movimenti interni.
Caden è questo, è uomo molteplice pieno di contraddizioni, che vive diversamente i rapporti con le “sue” donne, è un regista di successo di una compagnia teatrale, che dirige i suoi lavori con autorevolezza ma non riesce a dirigere se stesso, vaga sperdendosi in relazioni che non lasciano il segno e in un tempo di cui sembra aver smarrito la percezione, è solo in mezzo a moglie in fuga, psicologhe evanescenti, figlie perdute e presto sfiorite come un petalo viola che si stacca da un ormai freddo tatuaggio floreale, attori ed assistenti in perenne attesa della sua prossima mossa. Caden cerca di dilatare l’attesa della morte –dondolandosi tra l’ansia del rinvio e la consapevole immanenza-, ai cui richiami risponde con manifeste somatizzazioni ipocondriache, cercando affannosamente di dare un senso agli ultimi sprazzi di vitalità e di uscire di scena con un grande colpo finale. Improvvisa quindi uno spettacolo in un enorme capannone, in cui attori e personaggi, in un intricato gioco di scatole cinesi, si scindono e si ricompongono, e lui stesso dà la sua parte ad un clone in carne ed ossa che agisce, recita e dirige come lui ed al suo posto, secondo un processo di sdoppiamenti in cui teatralità e realtà si invadono in un’aura di sospensione. Io sono io e qualcun altro è me, perchè sa interpretarmi meglio di quanto io non sappia fare, sembra dirci pirandellianamente. Caden presagisce l’epilogo quando il suo clone scompare, la performance si allunga senza conclusione, conquista un’intesa rassicurante con una donna che sembrava destinata ad essere solo di passaggio, e affida l’ultimo se stesso, ormai ridotto a comparsa, a colei che lo dirigerà, quasi come un robot, sino alla fine, non senza aver conosciuto nel tratto finale del suo cammino il destino amaro delle presenze importanti della sua irrisolta vita.
E’ un film che non consente confronti, la cui estrema complessità impedisce di seguire passo passo lo svolgersi multilineare della narrazione, se non per sequenza di sensazioni, come una linea fatta di punti separati che alla fine acquista una sua contituità significativa. E’ un film struggente come lo è la figura grossa, panciuta, goffa ma maestosa di Seymour Hoffmann, che ha chiuso la sua vita cinematografica nella rappresentazione bellissima nella sua triste tragicità di un preludio di ciò che sarà qualche anno dopo. Rivediamo l’Hoffman di Magnolia che assiste il vecchio Jason Robards –già gravemente malato- sul letto di morte, mentre sotto ossigeno ripercorre la sua travagliata vita; qui l’immagine si capovolge, e Caden ormai prossimo al traguardo respira le ultime boccate di ossigeno, assorto come davanti allo schermo senza sonoro di una sala vuota e in penombra: fine del percorso, fine della sineddoche, fine del vissuto. Formidabile.
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elettrasammarco
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venerdì 27 giugno 2014
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un po' pletorico
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Per superare la sua crisi d’identità artistica, Caden Cotard (P. Seymour Hoffmann), un noto regista teatrale, decide di mettere in scena la sua vita e i suoi fallimenti umani: l’abbandono da parte di sua moglie Adele, che si trasferisce a Berlino con la loro bambina; una relazione naufragata sul nascere con una donna, Hazel, che gli rimarrà nel cuore per sempre; una storia d’amore con la sua prima attrice, e poi le sue malattie psicosomatiche, le ipocondrie, la costante paura della morte che è in realtà visione anticipatrice dell’inesorabile. La messa in scena avverrà in tempo reale: durerà una vita, tanto quanto la vita di Caden, e sarà indistinguibile dalle prove (forse un omaggio a Grotowski, peraltro citato nel film, e alla sua predilezione per le prove rispetto allo spettacolo in sé).
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Per superare la sua crisi d’identità artistica, Caden Cotard (P. Seymour Hoffmann), un noto regista teatrale, decide di mettere in scena la sua vita e i suoi fallimenti umani: l’abbandono da parte di sua moglie Adele, che si trasferisce a Berlino con la loro bambina; una relazione naufragata sul nascere con una donna, Hazel, che gli rimarrà nel cuore per sempre; una storia d’amore con la sua prima attrice, e poi le sue malattie psicosomatiche, le ipocondrie, la costante paura della morte che è in realtà visione anticipatrice dell’inesorabile. La messa in scena avverrà in tempo reale: durerà una vita, tanto quanto la vita di Caden, e sarà indistinguibile dalle prove (forse un omaggio a Grotowski, peraltro citato nel film, e alla sua predilezione per le prove rispetto allo spettacolo in sé). I personaggi si moltiplicano e così gli attori che li rappresentano, e nello spazio teatrale che li contiene una specie di hangar abbandonato le scenografie che ripetono gli interni e gli esterni delle esperienze di Caden crescono le une sulle altre in un work in progress mai compiuto. Caden cerca se stesso negli attori che mettono in scena la sua vita, ma l’unica verità che riesce a trovare è che lui è uguale a tutti gli altri esseri umani. Che non è l’essere speciale che si è sempre creduto. È l’uno per tutti, l’uno come tutti, la parte per l’intero. Lui è solo la sineddoche dell’intera umanità.
Synecdoche, New York è un opera complessa, che non lascia indifferenti. Un senso di morte, di perdita, di inutile attesa si leva dal film come nebbia, alimentata da un simbolismo stravagante, spesso riuscito: penso alla casa perennemente in fiamme dove Hazel va a vivere accettando il rischio/destino di morte; alle deiezioni su cui si focalizzano l’ipocondria di Caden e la sua ossessione per il disfacimento; ai biglietti lasciati alla donna di servizio attraverso cui comunicano Caden e Adele, corrispettivi della assurda traduzione simultanea dal tedesco a cui ricorre Caden nell’ultimo colloquio con la figlia ormai adulta: filtri comunicativi, in entrambi i casi, che sono markers di una distanza incolmabile tra gli esseri umani (peccato che proprio nella scena dell’addio alla figlia, una delle più dolorose, una gag surrealista raggeli il pathos con una inopinata allusione ad una omosessualità di Caden che non trova altri appigli nel resto del film).
Sprazzi di dadaismo, non-sense, indizi che non portano da nessuna parte. Ma in questo primo e finora unico film di Charlie Kaufman, sceneggiatore di film culto di Jonze e Gondry, c’è anche la vita come superfetazione di esperienze senza filo rosso né direzione, il teatro grotowskianamente inteso come simbiosi tra regista e attore, il destino mortale come unico vero trait-d’union tra gli esseri umani. C’è molto in questo film, e nel cinema il molto e il troppo in genere coincidono; ma è anche vero che qui il sovrappiù non è tanto nei temi quanto nei modi di una narrazione che procede accumulando eventi con una rapidità che ricorda i veloci cambi di scena delle esperienze oniriche. Potrebbe essere una scelta di stile, se non fosse che la rapidità spesso è tale da non lasciare a chi guarda il tempo dell’immedesimazione, della sedimentazione, della partecipazione emotiva. A volte subentra una noia da eccesso di eventi e microeventi non sempre necessari, a volte pletorici, generata non dalla lentezza ma dalla velocità. E finisce che a volte si ha l’impressione di assistere non ad un film, ma al suo trailer.
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enzo70
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lunedì 30 giugno 2014
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viaggio profondo nel dolore della vita
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Bisogna prepararsi prima di andare al cinema, prendere fiato, vedere Synecdoche è come leggere l’Ulisse di Joyce, è un’immersione nella dimensione della vita, nelle sue contraddizioni. Nulla è semplice, la prima mezz’ora ha una certa linearità, ma poi il film prende la strada della vita, si inerpica, diventa difficile trovare il bandolo della matassa, la coerenza si trova solo nel rigore del dolore e della continua ricerca del tempo perduto, che si perde e che si perderà. La morte diventa il filo conduttore di una vita che si trascina tra mille bivi, di cui difficilmente ne capiamo la ragione. Caden, il protagonista, impersonato da un maestoso Philip Seymour Hoffman, è un autore teatrale che dopo aver vinto un prestigioso premio decide di investire tutto se stesso nella produzione di uno spettacolo teatrale dove proporre una sintesi della sua vita e di quella dei suoi coprotagonisti, le persone che ha amato, anzi tutto la figlia.
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Bisogna prepararsi prima di andare al cinema, prendere fiato, vedere Synecdoche è come leggere l’Ulisse di Joyce, è un’immersione nella dimensione della vita, nelle sue contraddizioni. Nulla è semplice, la prima mezz’ora ha una certa linearità, ma poi il film prende la strada della vita, si inerpica, diventa difficile trovare il bandolo della matassa, la coerenza si trova solo nel rigore del dolore e della continua ricerca del tempo perduto, che si perde e che si perderà. La morte diventa il filo conduttore di una vita che si trascina tra mille bivi, di cui difficilmente ne capiamo la ragione. Caden, il protagonista, impersonato da un maestoso Philip Seymour Hoffman, è un autore teatrale che dopo aver vinto un prestigioso premio decide di investire tutto se stesso nella produzione di uno spettacolo teatrale dove proporre una sintesi della sua vita e di quella dei suoi coprotagonisti, le persone che ha amato, anzi tutto la figlia. Incapace di odiare, Caden, accetta passivamente le sorti che la vita gli riserva, reagisce sempre e solo interiorizzando le cose, gli amori, le delusioni. Lo sfogo è un’opera omnia che non andrà in scena, ma non si sa, questo film è da vedere e rivedere, con gli occhi delle stagioni della vita, quelle che Caden ripercorre, impassibile. Kaufman non fa un film complesso, propone una sintesi della cultura dell’occidente, partendo dalla tragedia greca, dove la volontà dell’uomo è sottomessa alle volontà del fato. Ma anche il volo quasi pindarico sulla cultura dei sensi di colpa, andrebbe approfondita la confessione della propria omosessualità alla figlia morente, e le ricorrenti citazioni dei grandi maestri della letteratura internazionale, da Kafka a Dostoesvskij, ne testimoniano la sostanza. Sullo sfondo New York, il cuore pulsante della vita dell’uomo moderna, irreale nella rappresentazione di Kaufman, ma che comunque reclama la sua funzione ineludibile funzione di regina del cinema. Non si capisce perché questo capolavoro del 2008 sia passato nelle sale cinematografiche italiane solo dopo la morte di Hoffman; e seri dubbi sotto questo profilo nascono sulla scelte distributive. Ma alla fine rimane il miglior saluto con il quale uno dei più grandi attori di sempre poteva salutare il suo incantato pubblico.
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darkglobe
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mercoledì 6 luglio 2022
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specchio di ansie, malumori e dubbi esistenziali
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Synecdoche, New York, va detto con sincerità, è un film deprimente, uno specchio di ansie, malumori e dubbi esistenziali riversati in pellicola e scaraventati con poco riguardo in faccia al pubblico. Film, come noto, destinato forse a cadere nell’oblio, almeno qui in Italia, ma recuperato dalla BIM a seguito della morte di Hoffman. Si tratta del primo lavoro come regista di Charlie Kaufman, fino a quel momento già ampiamente noto per aver realizzato gli script di Essere John Malkovich, Confessioni di una mente pericolosa e Se mi lasci ti cancello.
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Synecdoche, New York, va detto con sincerità, è un film deprimente, uno specchio di ansie, malumori e dubbi esistenziali riversati in pellicola e scaraventati con poco riguardo in faccia al pubblico. Film, come noto, destinato forse a cadere nell’oblio, almeno qui in Italia, ma recuperato dalla BIM a seguito della morte di Hoffman. Si tratta del primo lavoro come regista di Charlie Kaufman, fino a quel momento già ampiamente noto per aver realizzato gli script di Essere John Malkovich, Confessioni di una mente pericolosa e Se mi lasci ti cancello.
Il livello di complessità di Synecdoche, New York è assai elevato e richiederebbe non meno di un paio di visioni, perché eventi e personaggi si accatastano, il tempo degli accadimenti si dilata e si restringe e la confusione regna sovrana. Sintomatico che durante la lavorazione un addetto alla scenografia si occupò di disegnare una mappa dei luoghi per contestualizzare correttamente i personaggi e facilitare la vita agli attori.
Il film è la storia di Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), regista teatrale di un certo successo, che vive in una piccola e caotica casa, sposato con Adele (Catherine Keener), pittrice di minute, e padre di una bambina. Cotard viene lasciato dalla moglie, che lo tradisce con Maria (Jennifer Jason Leigh), la quale diventerà perfino amante della figlia. Quando il regista riceve inaspettatamente un consistente premio in soldi, decide di investirlo in una mastodontica opera teatrale sulla propria vita, anche per dimostrare alla ex moglie di non far solo lavori dal successo sicuro. La scrittura dell’opera si allunga negli anni ed il set teatrale si espande all’interno di un vecchio capannone riproducendo via via interi quartieri della città. In questo gigantismo scenografico in crescita continua, Cotard si dibatte tra amori femminili, realizzazione affannosa dell’opera teatrale e progressiva degenerazione fisica.
Caden Cotard è un ipocondriaco: inghiottisce pillole come caramelle ed il suo stato di degrado mentale, che diviene anche fisico, procede inesorabilmente negli anni, nel classico rapporto di scarsa empatia con i medici. Personaggio assai problematico, a pelle quasi respingente nel suo modo di affrontare la vita, pare un misto tra le depressioni e le incertezze nei rapporti con l’altro sesso alla Woody Allen e lo stile impacciato e bofonchiante alla Jack Lemmon.
Quello che si può dire con una qualche sicurezza è che il film è un lungo e duraturo incubo, nel quale si accavallano a ritmi ossessivi una moltitudine di episodi (fallimentari) di vita personale, in pieno delirio onirico. La folle sequenza dei fatti lo dimostra in maniera inequivocabile, già dall’incipit con le incongruenze tra le date annunciate alla radio e quelle sul giornale; quando Cotard si lamenta della figlia di soli 4 anni (ma ne ha in realtà già 11); o quando il diario della figlia dimenticato sotto un cuscino si espande tematicamente in maniera autonoma, anche come grafia, continuando ad offrire sempre nuovi spunti riflessivi della ragazza. Detto delirio raggiunge il suo culmine nella fase in cui Cotard viene affiancato, nella ricostruzione teatrale della sua vita, da Sammy Barntham (Tom Noonan), un imitatore che lo ha studiato ossessivamente e a fondo per 20 anni e che diviene così onnipresente nella vita del regista da richiedere per la pièce l’ingaggio di un imitatore dello stesso imitatore; aspetto quest’ultimo che smaschera un ingestibile avviluppamento dei fatti su se stessi, a dimostrare che il progetto artistico nato dalla riproduzione via via più fedele della vita di un individuo sia in fondo irrealizzabile.
I rapporti di Cotard con l’altro sesso afferiscono anch’essi alla sfera del depressivo e dei sensi di colpa: la moglie, apatica ed insofferente, lo tradisce con una donna e per lunga parte del film la sua fuga in Germania pare rappresentare un vuoto psicologico all'apparenza non colmabile - ma traspare una questione di orgoglio personale -; la figlia – il simbolo del dolore del distacco genitoriale - diventa ipertatuata e lesbica ( Hoffman lo tratta appunto come incubo paterno), esibendosi come spogliarellista e nutrendo rancore per il padre per fatti sessuali inesistenti, inculcati dalla perfida amante tedesca; l’amore di Cotard per la focosa segretaria Hazel ( Samantha Morton) - forse la sua donna ideale pur se incolta (razzismo culturale) e un po’ stramba (si pensi all’acquisto di una casa in fiamme) - pare giunga alla concretezza solo in vecchiaia, con una morte di quest’ultima che vorrebbe strappare un sorriso ma risulta penosamente ridicola; la seconda moglie Claire ( Michelle Williams) è una donna bella ma priva totalmente di personalità – i migliori attori rappresentano gli altri, non se stessi -, capace però anche lei, pur nella sua inconsistenza, di piantare Cotard; l’immancabile psicoterapeuta Madeline Gravis ( Hope Davis) – la donna in carriera piena di sé e tentatrice - pare più una macchietta stereotipata che un personaggio in grado di suscitare interesse, se non fisico; infine l’attrice Tammy ( Emily Watson) – la donna buona solo per una scopata – è insensibile perfino di fronte allo spettacolo del sangue della madre di Cotard.
Tralascio per pietà la questione delle manie sulla pulizia, che iniziano con uno spazzolino per la rimozione delle incrostazioni casalinghe e passano negli anni alla pulizia della casa della ex moglie. Per carità, tutto correlato psicologicamente allo stato mentale di Cotard, ma tutto anche piuttosto degradante.
Su questo mesto miscuglio di vicende ed obiettivi falliti, il tempo, pur nelle sue assurde asincronie dei fatti, scorre inesorabile conducendo Cotard alla morte, dopo aver seminato, lui malato, morti ovunque dietro di sé, inducendo lo spettatore a detestare il tempo sprecato per la visione del film.
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veritasxxx
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giovedì 3 luglio 2014
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provaci ancora charlie
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Una bella gatta da pelare questo “Synecdoche, New York”. Ma sapendo che il signor Kaufman era alla sua prima prova alla regia dopo avere scritto la sceneggiatura di film belli e complicati come “Essere John Malkovich” e “Se mi lasci ti cancello”, c’era da aspettarsi un delirio di onnipotenza creativa fuori controllo. Il film è complesso e con molteplici sfaccettature, e lascerà la maggior parte degli spettatori meravigliati, disorientati, commossi. Forse annoiati, dopo due ore di (apparente) nonsense.
Sì, perché nel racconto è spesso poco chiaro quali eventi siano reali e quali siano sogno o immaginazione, come se fosse l’effetto provocato dallo stato alterato della mente di Caden, il protagonista, che ha evidentemente seri problemi di salute e di depressione e che vede la morte avvicinarsi inesorabile.
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Una bella gatta da pelare questo “Synecdoche, New York”. Ma sapendo che il signor Kaufman era alla sua prima prova alla regia dopo avere scritto la sceneggiatura di film belli e complicati come “Essere John Malkovich” e “Se mi lasci ti cancello”, c’era da aspettarsi un delirio di onnipotenza creativa fuori controllo. Il film è complesso e con molteplici sfaccettature, e lascerà la maggior parte degli spettatori meravigliati, disorientati, commossi. Forse annoiati, dopo due ore di (apparente) nonsense.
Sì, perché nel racconto è spesso poco chiaro quali eventi siano reali e quali siano sogno o immaginazione, come se fosse l’effetto provocato dallo stato alterato della mente di Caden, il protagonista, che ha evidentemente seri problemi di salute e di depressione e che vede la morte avvicinarsi inesorabile. La successione temporale degli eventi è parimenti intenzionalmente confusa. La chiave per la comprensione del film è il titolo stesso: la sineddoche è una figura retorica in cui una parte fa riferimento al tutto o il tutto a una parte (ad esempio “Inghilterra” al posto di “Regno Unito” o “la legge” invece de “la polizia”). Il teatro è una sineddoche, nella quale gli eventi sul palco rappresentano il mondo intero, e viceversa, il mondo può essere visto puramente come un teatro e la vita come una commedia. Il magazzino in cui Cotard costruisce la sua copia di New York lentamente diventa una sineddoche della sua esistenza e risulta progressivamente meno chiaro, nell’avanzare della storia, se gli eventi della vita di Caden siano recitati in scena, o se le scene della commedia vengano rappresentate nella vita reale del suo autore. L’opera teatrale di –pace all’anima sua- Philip Seymour Hoffman rappresenta quindi la sua vita e nel finale arriverà a seguire le indicazioni dell’assistente di scena attraverso un auricolare, addirittura obbedendo al suo comando finale: “Muori”.
Le trovate sono tante e tali che sarebbero bastate per fare non uno ma cinque film tanto originali da fare impallidire il resto della produzione Hollywoodiana. Ma sono così complesse e intrecciate tra di loro (l’attore che interpreta Caden nella commedia e tutti gli altri sosia dei personaggi reali hanno a loro volta altre copie e altre vite parallele che si confondono tra di loro) che il mal di testa è quasi inevitabile e l’iniziale entusiasmo per una storia così fuori dalle righe dopo un’ora comincerà a surriscaldare le meningi dello spettatore medio fino a farlo sentire non all’altezza di comprendere un racconto tanto intriso di significati filosofici e di riflessioni profonde sul senso dell’esistenza.
L’impressione personale, e qui sfioriamo il paradosso, è che al nostro bravo ex-sceneggiatore sia mancata una buona sceneggiatura. Forse era troppo preso dallo stare dietro alla macchina da presa e si è dimenticato che per tenere la gente due ore davanti ad uno schermo ogni tanto ci vuole un break per il loro povero cervellino stanco della settimana di lavoro, o almeno dei sottotitoli che spieghino meglio cosa sta succedendo. O il risultato è quello di creare un effetto zapping (ogni scena apparentemente sembra avere poco legame con quella precedente e la successiva), o un film alla Lynch - e in questo Mulholland Drive torna alla mente - tanto bello quanto complesso e bisognoso di visioni ripetute per essere compreso appieno. Si sarebbe potuto sfiorare il capolavoro con dei momenti tecnicamente “morti”, ma che favorissero l’identificazione con i protagonisti, pur nella tristezza delle loro vite insignificanti. E invece, si esce dal cinema confusi e un po’ stupidi, come dopo aver letto un saggio su Nietzsche senza averci capito molto.
Provaci ancora Charlie.
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howlingfantod
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martedì 28 luglio 2015
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raffinato ed ineseguibile
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Ambizioso progetto di film totale, domanda esistenziale e artistica sulla rappresentazione e/o rappresentabilità del reale, film nel film che contiene continue sovrapposizioni ed incursioni anche difficili e sfiancanti, forse eccessive reale finzione e viceversa. Tutto il il film è infatti il tentavo destinato al fallimento di un regista teatrale di mettere in scena in pratica l’opera monstre in presa diretta della sua vita.
Il film interpretato quasi come un testamento dal compianto grandissimo Philip Seymour Hoffman è la storia già rivista in altre forme nel mondo del cinema nel cinema o nel teatro (Vanja sulla 42° strada), del tentativo immane di rappresentare la realtà, è la rappresentazione della grande difficoltà dello sforzo creativo destinato comunque al fallimento come in ogni narrazione “postmoderna” e comunque del suo profondo valore etico (“Miliardi di persone al mondo e nessuno è una comparsa, ognuno è protagonista della sua storia) e per inciso quella che Caden Cotard vorrebbe rappresentare non è nemmeno quella più importante e a tutti gli altri è giusto che gli interessi relativamente.
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Ambizioso progetto di film totale, domanda esistenziale e artistica sulla rappresentazione e/o rappresentabilità del reale, film nel film che contiene continue sovrapposizioni ed incursioni anche difficili e sfiancanti, forse eccessive reale finzione e viceversa. Tutto il il film è infatti il tentavo destinato al fallimento di un regista teatrale di mettere in scena in pratica l’opera monstre in presa diretta della sua vita.
Il film interpretato quasi come un testamento dal compianto grandissimo Philip Seymour Hoffman è la storia già rivista in altre forme nel mondo del cinema nel cinema o nel teatro (Vanja sulla 42° strada), del tentativo immane di rappresentare la realtà, è la rappresentazione della grande difficoltà dello sforzo creativo destinato comunque al fallimento come in ogni narrazione “postmoderna” e comunque del suo profondo valore etico (“Miliardi di persone al mondo e nessuno è una comparsa, ognuno è protagonista della sua storia) e per inciso quella che Caden Cotard vorrebbe rappresentare non è nemmeno quella più importante e a tutti gli altri è giusto che gli interessi relativamente.
Concessioni al grottesco, al surreale in un film per certi versi molto “Alleniano”, ritmo serratissimo per un opera poetica e raffinata ma musicalmente si darebbe detto una volta ineseguibile, come il testo teatrale che alla fine infatti non si riesce a rappresentare e nemmeno a concludere
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