La grande bellezza |
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Un film di Paolo Sorrentino.
Con Pamela Villoresi, Franco Graziosi, Pasquale Petrolo, Serena Grandi, Maria Laura Rondanini.
continua»
Drammatico,
durata 150 min.
- Italia, Francia 2013.
- Medusa
uscita martedì 21 maggio 2013.
MYMONETRO
La grande bellezza
valutazione media:
3,36
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Operazione mediatica a regola d'artedi Massi(Mo)rdiniFeedback: 2673 | altri commenti e recensioni di Massi(Mo)rdini |
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martedì 14 gennaio 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
La vittoria de “La grande bellezza” ai Golden Globe mi fornisce finalmente il pretesto per discutere, e mettere in discussione, il tanto osannato film di Sorrentino.
Purtroppo quello di Sorrentino è però un film, non un'opera di video-art, e in quanto tale necessita anche di una sceneggiatura che, quando si rivela totalmente fuori controllo come in questo caso, non può che intaccare il risultato finale... Per chi non l'avesse ancora visto il film narra la storia di Jep Gambardella, arrivato a Roma come scrittore ambizioso e uscitone come giornalista disincantato ma dalla grande popolarità. La metamorfosi è da imputare a Roma e alla vita che vi si conduce, alla costante ricerca di piaceri sfrenati quanto fugaci e a frequentazioni frivole e superficiali. O almeno questo è quello che Sorrentino sembra maliziosamente suggerirci. Personalmente trovo alquanto inverosimile che il protagonista, che ha intitolato il suo unico libro “L'apparto umano”, si dimostri così insensibile verso gli stessi umani che lo circondano. Gli unici a suscitare simpatia in lui sono, guarda caso, coloro che vivono ai margini della società e che, in quanto tali, non sono contagiati dal vizio perché tutelati dal loro sobrio stile di vita; questa sorta di classismo al contrario, in cui una donna delle pulizie è da preferire a tutti costi a una soubrette cocainomane o un rampollo suicida, è qualcosa di imbarazzante nella sua demagogia. Non capisco proprio come si possa ritenere graffiante un film del genere, in cui si preferisce lo sterile cinismo a una critica che avrebbe potuto dimostrarsi caustica e irriverente. Sorrentino sfrutta suo vantaggio i più abusati luoghi comuni, catturandosi il favore dello spettatore medio e accontentando la critica benpensante: la sua è quindi un'operazione disonesta, aggravata dalla consapevolezza con cui è perseguita, che si compiace nel cavalcare l'onda del malcontento popolare. Ne esce fuori una realtà falsata, dove l'arte contemporanea è fatta da bambine tristi perché non possono giocare, dove persiste il mito idealizzato della campagna virtuosa e della metropoli corrotta (sarebbero passati duemila anni da Giovenale...), dove i palazzi barocchi diventano il baluardo di una società un tempo grandiosa, nella quale ovviamente non si facevano orge e non si tessevano intrighi e dove le opere d'arte era collezionate per mecenatismo e non per dar sfoggio al proprio potere (sì, come no). Una visione così candida sfiorerebbe l'ingenuità ma Sorrentino è tutt'altro che ingenuo, sa benissimo che cosa vuole sentirsi raccontare il pubblico. Preferisce attingere dal repertorio delle nefandezze da rotocalco anziché sondarne i moventi: siamo lontani anni luce dai capolavori di Fellini in cui disagio esistenziale e critica sociale si sostenevano l'un l'altro in un equilibrio perfetto e inimitabile. Nessuno più di me avrebbe preferito evitare di parlare di Fellini ma certi debiti, specie se così espliciti, vanno denunciati e non nascosti sotto false modestie. Lo stesso vale per Gustave Flaubert, che Sorrentino nomina per mettere furbescamente le mani avanti: dichiara infatti che nemmeno lo scrittore francese è riuscito a parlare del nulla, figuriamoci lui. Su questo non posso che dargli ragione: è infatti difficile, nonché parecchio ambizioso, parlare di una società noiosa e annoiata come la nostra (molto più facile è invece puntarle il dito contro e condannarla senza assoluzione). In definitiva l'incapacità di analisi e la faciloneria con cui sono trattati i temi rendono l'opera, per non dire operazione, più vuota della realtà che pretende di immortalare. Se infatti venisse fuori che la meschinità risiede in noi e non nei soliti ricconi mafiosi forse il film non ci piacerebbe così tanto... Ma in fondo un'ipocrita indignazione mette tutti d'accordo ed è garanzia di successo e proventi, che faranno la gioia delle case di produzione e di chi le possiede.
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