La pelle che abito |
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Un film di Pedro Almodóvar.
Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet, Roberto Álamo.
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Titolo originale La piel que habito.
Drammatico,
Ratings: Kids+16,
durata 120 min.
- Spagna 2011.
- Warner Bros Italia
uscita venerdì 23 settembre 2011.
- VM 14 -
MYMONETRO
La pelle che abito
valutazione media:
3,12
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Un bisturi nelle mani di Almodovardi Massi(Mo)rdiniFeedback: 2673 | altri commenti e recensioni di Massi(Mo)rdini |
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sabato 11 gennaio 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Sembra infatti questa la modalità con cui il regista spagnolo ha utilizzato la cinepresa: sezionando, non rappresentando, ciò che appare agli occhi dello spettatore. Ma l'operazione (dalla precisione) chirurgica cui assiste il pubblico non è una vaginoplastica, bensì un'autopsia. Un'autopsia che ci mostra la vera anatomia di quella che lo spettatore crede essere la realtà, termine che in questo caso si dimostra assai inefficace se non fuorviante. Come fuorvianti sono del resto i nomi degli stessi personaggi: Norma è una ragazza che soffre di disturbi psichici dovuti a un trauma infantile (e non al tentativo di “stupro” di cui è rimasta vittima, come vuol far credere il padre), Vicente è un ragazzo tossicodipendente che non riesce a reagire alle torture che gli vengono imposte (se non alla fine quando, sotto altre sembianze, dimostra di meritarsi il nome che gli è sempre appartenuto) e Vera è una persona che di autentico non ha conservato quasi niente. Così come aveva conservato poco del suo corpo Agrado di “Tutto su mia madre”, la quale però si definiva autentica in quanto assomigliava all'idea che aveva di sé stessa. Agrado trova sé stessa mentre Vicente perde sé stesso ed è questo il motivo per cui il film di Almodovar ci appare così diverso dalle sue opere precedenti, così asettico e (volutamente) privo della consueta, seppur velata, comicità. Non mancano comunque i riferimenti ad altre opere cinematografiche come “Persona” di Bergman: primi piani intensi, volti riprodotti su maxischermi (o su riflessi di finestre che diventano specchi, con tragiche conseguenze...) e la stessa definizione di persona intesa come personaggio, come maschera. Ma mentre certi personaggi rinunciano ad essere tali (Norma rifiuta di indossare vestiti troppo aderenti e qui la metafora dell'abito è più che mai evidente) altri si identificano con il loro ruolo come nel caso di Marilla, che preferisce indossare la divisa da domestica invece di fare da madre a Robert; altri ancora, invece, approfittano del carnevale per indossare maschere che rivelano la loro vera identità: esemplare è il caso di Zeca/El Tigro, una tigre dalla coda molto particolare. La maschera più emblematica rimane comunque quella di Vera, che riporta sul viso la forma dell'organo di cui è stata privata. Come il sostantivo persona, anche il termine abito deve essere inteso in senso etimologico: abito come abitazione; non è infatti un caso che Vera disegni sul muro della stanza in cui è reclusa persone con una casa al posto della testa e che, dopo aver perso la sua identità corporale, si rifugi in quella spirituale grazie alla pratica dello yoga. Solo in questo modo riesce a conservare l'identità di Vicente nel corpo di Vera, così come artisti come Louise Bourgeois hanno conservato l'anima di Tiziano (la cui “Venere di Urbino” viene insistentemente ripresa in numerose inquadrature insieme ad altre significative opere d'arte) riproponendola in installazioni che vengono a loro volta riprodotte dalla protagonista. Quest'ultima crea composizioni con ritagli di stoffa, nello stesso modo in cui Vicente usava la stoffa per creare vestiti; questa somiglianza introduce quello che scopriremo nella seconda metà del film: Vera non è altro che Vicente stesso, trasformato dal padre della ragazza abusata in una creatura con le sembianze della moglie morta. Emerge qui l'eco del capolavoro di Mary Shelley, dal cui confronto Almodovar, grazie al suo talento innato, esce Vi(n)cente.
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