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Almodovar e Banderas, la coppia più bella del mondo

Il regista spagnolo presenta a Cannes il suo La pelle che abito.
di Ilaria Ravarino

Pedro Almodóvar (Pedro Almodóvar Caballero) (74 anni) 25 settembre 1949, Ciudad Real (Spagna) - Bilancia. Regista del film La pelle che abito.

giovedì 19 maggio 2011 - Incontri

No nazi, claro que no». A Pedro Almodovar, a Cannes due anni dopo Gli abbracci spezzati, tocca il difficile compito di restituire serenità a un Festival in agitazione da 24 ore per le dichiarazioni su Hitler del collega Von Trier. Anche se in concorso ha portato un thriller, La pelle che abito, «una storia di sopravvivenza in una situazione estrema», la presenza in sala del regista spagnolo è calda e rassicurante, amabile, lontana anni luce dal protagonismo oscuro di molti dei suoi illustri colleghi. Applaudito e amato, è l’autore che mette d’accordo tutti: non scatena tifoserie da stadio, ma nemmeno reazioni violente. Eccentrico quanto basta, con i capelli raccolti in un ciuffo spettinato e una camicia verde pisello, Almodovar è arrivato a Cannes con la “sua” star Antonio Banderas, incantevole cinquantaduenne scoperto negli anni ’80 proprio dal regista spagnolo, che lo volle in pellicole come La legge del desiderio, Donne sull'orlo di una crisi di nervi e Legami!. Era dal 1989 che i due non lavoravano più insieme: «Pedro fa parte della mia vita – dice Banderas - non rappresenta solo l’inizio della mia carriera». L’emozione di ritrovarsi dopo più di vent’anni è tutta nella voce che trema di Banderas, nelle sue parole che suonano autentiche, negli occhi lucidi del regista di nuovo insieme alla sua creatura. Per quanto stucchevole, il trionfo dei buoni sentimenti pare l’unica medicina in grado di salvare il festival dall’avvelenamento.


PEDRO ALMODOVAR

Come è nata l’idea di questa storia?
Dieci anni fa lessi il libro da cui ho tratto il film, uno di quei romanzi che di solito sfogli in aereo e che ti dimentichi quasi subito. E invece in quelle pagine c’era qualcosa che aveva attirato la mia attenzione: il tema della terribile vendetta di un medico. Non tutti gli elementi erano chiari nel libro, per questo nel film ho finito per allontanarmi parecchio dalle pagine scritte.

Perché nel film i suoi personaggi hanno origini brasiliane, e non spagnole?
Perché la loro moralità, selvaggia e priva di etica, non poteva appartenere alla cultura spagnola nella quale io stesso sono cresciuto, tutta basata sui concetti di castigo e peccato.

Si identifica in personaggi così a tinte forti?
No. L’unica cosa che posso avere in comune con il personaggio di Antonio è l’amore per la creazione. Lui in qualche modo è un creatore di vita: crea nuova pelle, nuovi corpi, nuovi organi che possono identificarci e separarci dagli altri. Certo, poi è un personaggio che dal principio si mostra senza scrupoli, un estremo, uno psicotico incapace di calarsi nei panni degli altri. Io non sono cosi. Però amo la creazione, come lui: un regista è quanto c’è di più simile a un dio, può realizzare le proprie fantasie, dare forma alla propria immaginazione. È il massimo del potere che un uomo possa avere. E mi piace.

Perché un thriller?
Nel mio percorso cinematografico ho attraversato generi diversi, e in questo momento il thriller mi pare la chiave migliore per abitare un genere senza per forza escludere gli altri. Per me è fondamentale, visto che sono completamente incapace di rispettare i canoni dei generi. Ma forse non dipende solo da me: non credo che musical, thriller e commedia oggi si possano fare con la stessa innocenza degli anni ‘50. Non so ancora come sarà il mio prossimo film, ma è possibile che sia ancora un thriller.

Si è preparato sul genere? A chi si è ispirato?
Ho studiato tutto quel che è il terrore al cinema. E l’ambito che più mi ha interessato è il thriller anni ’40, alla Fritz Lang; in un primo momento sono stato tentato di far qualcosa di quel tipo, magari un film in bianco e nero e muto, ma la sceneggiatura non si prestava. Ci ho pensato a lungo, però, ed è la prima volta che lo confesso. Chissà se nel futuro....

Altre ispirazioni al di fuori del genere thriller?
Sicuramente Occhi senza volto di Georges Franju, con Alida Valli e Pierre Brasseu. È stato fin dall’inizio nei miei pensieri, mi ha indirizzato verso un terrore senza sangue, escludendo la possibilità di finire nel gore o nello spettacolo brutale.

Nessun riferimento a Frankenstein, quindi?
Sì certo, anche Frankenstein. Ma solo quando ho finito il film mi sono reso conto di debiti e influenze: c’è anche la mitologia greca, il mito di Prometeo, il titano che rubò la luce agli dei per donarla agli uomini, che è anche all’origine di Frankenstein. Nel caso del mio film la luce di Prometeo è la transgenetica: è questa la tecnica che converte Antonio in un titano.

Come si è documentato sulla transgenetica?
Molto mi ha aiutato mio fratello, che per questo motivo compare nei titoli di coda. La transgenetica è qualcosa di cui si parlava molto mentre scrivevo: è una possibilità proibita per la sperimentazione umana ma sviluppata in altri campi, come quello alimentare. Non è realtà, ma nemmeno fantascienza visto che proprio mentre giravamo mi è capitato di leggere un articolo su un laboratorio che lavora alla creazione di pelle artificiale.

Scienza e arte possono comunicare?
Seguono cammini diversi. La scienza può totalmente trasformarci, e un giorno farà sì che quel che oggi intendiamo come umanità diventi un’altra cosa. La scienza ci fa avanzare su una strada di cui non possiamo intuire la fine, anche se io spero che sia una buona fine... La scienza ci aiuta, ma può portarci anche in un abisso di cui nessuno sa nulla. L’arte invece credo che continuerà sempre ad aiutarci, a darci piacere, a farci sopravvivere.


ANTONIO BANDERAS

Com'è stato tornare a lavorare con Almodovar?
Un riconoscimento unico, sono orgoglioso di far parte del suo universo. È come tornare in un paese che conosci, con tutti suoi difetti e le sue qualità, come tornare nella casa dove sei cresciuto. Ho ritrovato con lui anche tanti attori, come Marisa Paredes con la quale ho condiviso tante esperienze e superato barriere, magari senza esserne del tutto coscienti, in film che sono oggi diventati classici del cinema spagnolo. Attori come lei oggi sono diventati modelli per una generazione di interpreti, cresciuti con i loro film: è una grande soddisfazione sapere che anche grazie a loro il nostro cinema ha un futuro roseo davanti a sé.

È cambiato il modo di fare cinema di Almodovar?
Dopo 20 anni, ritrovo la sua stessa capacità di rimanere ostinatamente attaccato al percorso interiore dei suoi personaggi. L’atto creativo per lui non consiste nei trucchi di scena o in artifici pirotecnici, ma nel saper costruire complessi cammini psicologici. È una lezione di cinema fondamentale.

Come hai lavorato a un personaggio così crudele?
Ho fatto un lavoro di grande economia, soprattutto gestuale, interiorizzando tutto il mondo del protagonista. Mai un gesto eclatante davanti alla macchina da presa, come credo di aver fatto spesso in altri film. Qui mi interessava l’apatia del mio personaggio, la sua incapacità di condividere empaticamente il dolore altrui. Ho dovuto lavorare molto sulla sua mostruosa freddezza: stiamo parlando di uno che dice di aver praticato una vaginoplastica come se stesse prescrivendo un’aspirina. Credo che Pedro cercasse questo orrore freddo, la paura che non ti fa saltare sulla sedia, ma ti entra dentro e ti rimane addosso, ti fa riflettere.

Scienza o arte, cos’è più importante per l’uomo?
Credo siano valide entrambe. La scienza sostiene i nostri corpi, l’arte le nostre anime, il cuore. Sono complementari.

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