Partendo prevenuto sia su Paolo Sorrentino che su Toni Servillo, ero avvantaggiato. Sono rimasto piacevolmente sorpreso.
Un susseguirsi di paradossi e dialoghi tagliati con il diamante.
Non è la fotografia (bella, troppo bella). Non è la recitazione di Servillo (perfetta, troppo perfetta). A reggere il film sono i dialoghi nati dalla testa di Sorrentino.
Uno scrittore, un provocatore che si ostina a fare il regista, a fingere di ispirarsi a Fellini senza averne la vocazione alla favola.
In Sorrentino c’è molto di più. C’è rabbia. Un limite e un vantaggio.
Un limite in apertura. La lentezza esasperante. Il turista giapponese folgorato dal panorama del Gianicolo. L’accanimento di un quarto d’ora a colpi di Raffaella Carrà in una discoteca satura di vecchi e di donne svuotate. La tendenza di Servillo a recitarsi addosso, a “disturbare” il film giocando con la bravura.
Un vantaggio nel sarcasmo dello stesso Gep–Servillo. Finto cinico. Pigro. Romantico. Il più romantico e il più fragile. L’indolenza di Mastroianni assecondava la città. La rinuncia aggressiva di Servillo viene rigettata, si rigetta da sé.
“Quand’ero ragazzo, più del sesso, amavo l’odore nelle case dei vecchi…”. “A 65 anni non posso perdere tempo con quello che non mi piace…”. “È stato bello non farlo…”. Ogni frase, una perla.
Un Bartleby paradossale, che si circonda di bellezza e squallore per ridicolizzarli. Per ridicolizzarsi. Per raschiare il fondo e arrivare al nulla, al “preferirei di no”.
Tutto quello che viene ostentato viene al tempo stesso negato.
Roma è questo. Bellezza che si nega.
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