Ultimo detentore dei segreti della commedia all'italiana. Una celebrità che ha catturato lo sguardo degli spettatori nel modo più pungente possibile e senza mai perdersi. Incoraggiato da Vittorio Cecchi Gori - mitico nell'individuare ragazzi vincenti e bravi del cinema italiano - Paolo Virzì si aggira nel piccolo mondo provinciale puntando su quel prodotto medio che ancora oggi latita alla produzione cinematografica nazionale, ma senza abbandonare mai una cerca dose di rivoluzione e di impegno. Doti, queste, che gli hanno permesso di essere uno dei cineasti più interessanti in circolazione. Abile nel costruire bozzetti coloriti, nel riprendere con sguardo pietoso un'Italia da ridere (e da piangere), acuto quando si tratta di delineare ritratti sociologici che si ispessiscono con ritmo sostenuto, è un po' come uno dei leggendari artisti del Rinascimento medievale, soprattutto perché dai suoi affreschi - carichi di personaggi come casalinghe con sogni televisivi e con il corpo prorompente di Sabrina Ferilli, insegnanti che fanno i finti intellettuali ma hanno la moglie burina a casa, parvenu di ieri e di oggi e impiegate dei call center terrorizzate dalla precarietà della vita - scaturisce la vera anima del suo lavoro e del suo stile. Il senso del ridicolo, l'arroganza, l'infelicità diventano qualità delle sue pellicole a tratti romanzesche, che si spostano da un mondo all'altro, da una diversità all'altra, così imperanti da parlare già di un "Virzì Touch". I nodi dell'amicizia, della famiglia, del lavoro, della vita quotidiana, diventano i nodi dello status quo da sciogliere sul filo di un Io narrativo di formazione che, come on the road, si sperde fra riflessioni e strade di sapori e disillusioni della vecchia commedia che abbiamo ereditato. Brillante e affiancato nella scrittura dai fedeli Francesco Bruni e Francesco Piccolo, è uno dei pochi registi che coglie l'Italia per quella che è effettivamente. Stradaiola, picaresca, provinciale, lontana anni luce dal finto mito della globalizzazione che, in effetti, non ci appartiene. È un'Italia entusiasta del calcio, approssimativa nella conoscenza, ferocemente aspirante in qualcosa purché ci si metta in mostra, innamorata, radicale e a volte intransigente, ma soprattutto spavaldamente e gustosamente ignorante. Pellicola per pellicola, Virzì ci restituisce un eterno presente usando, di volta in volta, personaggi chiavi più come una lenta per guardare dentro di noi che come i perni della trama. E noi, se proprio dobbiamo dirla tutta, proviamo un gusto immenso nel ridere delle nostre miserie, sbandierate e rivelate sotto ogni punto di vista, con ogni sfumatura, segreta o meno, scandagliando accaniti i nostri comportamenti privati che si perdono fra il gossip nazionale e le nostre biografie. Ad avercene registi con così tanta intelligenza, abilità e coraggio.
Gli esordi da sceneggiatore
Dopo aver frequentato il corso di sceneggiatura di Furio Scarpelli al Centro Sperimentale di Cinematografia, collabora a diversi script, fra cui quello di Turné (1990) di Gabriele Salvatores che il regista porterà sul grande schermo con Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Laura Morante, Ugo Conti, Ninì Salerno e Claudio Bisio, seguito poi da Condominio (1991) con Ciccio Ingrassia, Tempo di uccidere (1991) con Nicolas Cage e Una questione privata (1991) che diverrà una fiction.
Il debutto come regista e il successo di Ovosodo
Nel 1994, sente l'esigenza di mettersi in prima linea come autore, così impugna la macchina da presa e firma La bella vita con Claudio Bigagli, Sabrina Ferilli e Massimo Ghini, vincendo meritatamente il David di Donatello e il Nastro d'Argento come miglior regista esordiente. Nel 1996, invece, viene nominato al David nelle categorie miglior regia e sceneggiatura per un nuovo film corale Ferie d'agosto (1996), ma il più grande successo lo aspetta con la commedia Ovosodo (1997) dove, dirigendo Edoardo Gabbriellini, Nicoletta Braschi, Claudia Pandolfi e Regina Orioli, si lancia nella storia di formazione di un ragazzo cresciuto in un quartiere popolare e che si ritrova felicemente sistemato come marito, padre e operaio. La critica si innamora senza ombra di dubbio di lui: Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia e due candidature ai David per la regia e la sceneggiatura.
Gli altri film
A seguire verranno: Baci e abbracci (1999, con candidatura al Nastro d'Argento per il miglior soggetto), My name is Tanino (2002, dalla lavorazione lunga e complicata per via delle gravi situazioni finanziarie che investirono i gruppo di produzione Cecchi Gori), Caterina va in città (2003, con nuove candidature ai David e ai Nastri d'Argento per sceneggiatura e regia), N (Io e Napoleone) (2006) e Tutta la vita davanti (2008), lasciandosi dirigere da Nanni Moretti ne Il caimano (2006), come attore nel divertente ruolo di un dirigente maoista.
Il grande successo arriva anche nel 2010 con La prima cosa bella, toccante commedia in cui dirige una strepitosa Micaela Ramazzotti (nel frattempo diventata sua moglie e madre di suo figlio). Due anni dopo torna al cinema con un'altra storia di precariato e amore nel toccante Tutti i santi giorni. Subito dopo il suo impegno come direttore del Torino Film Festival (a fine 2013), porta al cinema a gennaio 2014 il nuovo film, tratto questa volta da un romanzo di Stephen Amidon, Il capitale umano, commedia amara sulla storia di due famiglie destinate a incrociarsi a causa di un incidente. Tornerà con Valeria Bruni Tedeschi e la moglie Micaela Ramazzotti per dirigere La pazza gioia, film che racconta l'amicizia strampalata tra due donne molto diverse tra loro, in fuga da una comunità di recupero per donne con disturbi mentali. Andrà poi in America per girare Ella & John - The Leisure Seeker, un on the road che vede protagonisti Helen Mirren e Donald Sutherland.
Nel 2018 dirige invece la commedia gialla Notti magiche e nel 2022 presenta fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia il film corale Siccità. Tornerà al cinema nel 2024 con Un altro Ferragosto, ideale seguito di Ferie d'Agosto (1996).
La commedia popolare
Gradevole maestro della commedia social-sentimentale e del giusto equilibrio fra i sussulti del cuore e quelli della società, sorprende costantemente per la sua autoironia e ironia, rifacendosi ai personaggi interpretati da Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Giovanna Ralli, portandoli a nuova vita e impiantandoli in realtà italiane che si immergono in una nazione che non si è ancora ristabilita dopo gli Anni Settanta, che soffre e gioisce fra miracoli e riformismi, fra congiunture e fra sessantotto, gigioneggiando, immaginando. L'analisi sociale diventa una barzelletta efficace, ma una di quelle dure, arrabbiate e deluse che non risparmia nessuno. Non si salva nessuno nei film di Virzì: non importa che sia destra o sinistra, senza titolo di studio o laureato, professori e alunni, adolescenti e genitori. Strizzando l'occhio a Ettore Scola, Mario Monicelli, Luigi Magni, il Virzì Touch dipinge continuamente anni, storie ed esistenze che cercano di evitare quanto più possono il consumismo, l'utopia radical-chic, gli intrallazzi, gli intrighi politici, le divisioni fra zecche e pariole e la stupidità che invece trionfano con tanto di riferimenti e modelli nel resto del mondo. E se i suoi protagonisti non sanno a quale santo votarsi (e allora meglio credere in se stessi), di questa confusione, meglio ridere apertamente. Il merito, tenero e intelligente, di Paolo Virzì sta proprio qui, in questo vagabondare divertito, alla ricerca di briciole di bellezza, di ingenuità, di amara allegria che diventano stendardi della commedia popolare.
Tra tutte le perplessità e le critiche ricevute da Notti magiche sulle colonne dei critici più importanti, quelle di bozzettismo o caricatura sono le più incomprensibili. Il nuovo film di Paolo Virzì è evidentemente una satira del mondo cinematografico italiano, colto in un momento di trapasso (è il caso di dirlo, visto che il film comincia con la scoperta di un cadavere: il morto è un produttore)
Il film di Paolo Virzì è solo l'ultimo di una lunga serie di progetti internazionali realizzati da registi italiani. Pochi sono abituati a pensarlo così, ma il cinema italiano è sempre stato cosmopolita, spesso attratto dall'estero e altrettanto di frequente interessato a un confronto di culture. Se Fellini è il regista che meglio ha espresso questa sospensione tra provincia e mondo, e non solo con La dolce vita, tanti altri cineasti si sono sentiti in dovere di provare la sfida della "trasferta" cinematografica