Il cinema italiano doveva, prima o poi, destarsi dal torpore che ormai lo affligge da moltissimi anni.
"La grande bellezza" è un ottimo modo per aprire (o meglio ri-aprire) un stagione "dorata" per il nostro cinema, da troppo tempo colpito da una grave crisi espressiva e contenutistica, che vive sulla cultura stereotipata del "cinepanettone".
Esso è forse la rampa di lancio definitiva per Sorrentino, nel quale tutta l'Italia spera di ritrovare l'estro di geni del calibro di Fellini, De Sica, Rossellini, Visconti e Bertolucci, che in passato hanno portato il nostro paese nell'elite mondiale della settima arte.
Questo film, personalmente, specialmente nella prima mezz'ora, mi ha letteralmente entusiasmato, e il primo pensiero che mi è balzato alla mente è stato:"ma possibile che sia un film italiano?" Infatti, dopo Fellini, non ho mai ritrovato, neanche lontanamente, un film italiano tanto caratteristico sia nella fotografia sia nel movimento di macchina.
Ci vuole coraggio a presentare un proprio stile in questi tempi così votati o al cinema "di massa" (specie nel Belpaese), o allo sperimentalismo che in realtà non è che conformismo. In questo Sorrentino mi ha sorpreso positivamente: il suo stile particolare si allontana anni luce e si eleva rispetto alla moltitudine, spesso indistinguibile (fatte pochissime eccezioni) del cinema odierno.
Un film, a mio parere non può essere un grande film senza che sia unico e irripetibile: solamente in questo modo può rimanere indelebilmente nell'anima dello spettatore e raggiungere i suoi scopi più alti: far riflettere e suscitare emozioni; "La grande bellezza", almeno in me, ce l'ha fatta.
Jep Gambardella, un ex scrittore che ha dato alla luce un solo romanzo e che vive la propria vita interamente immerso nella mondanità romana, ci porta a scoprire una Roma particolare, quasi sconosciuta ai più, attraverso due vie spazio-temporali parallele ma sempre in costante relazione tra loro: da una parte la mondanità, la confusione, la volgarità del presente e dall'altra i silenzi, la maestosità, la sacralità provenienti dal passato ma che "ospitano" anche la vita di oggi, esattamente come il presente "ospita" il passato.
A fare da "collante" di questa doppia e quasi contraddittoria via, ci sono le vicende umane di un uomo (Gambardella appunto) anche lui caratterizzato da una doppia realtà di vita: una vena mondana, ai limiti della moralità, da una parte, ma anche da una personalità colta, acuta e ricca di fascino dall'altra. Esattamente come Roma.
Sorrentino riesce a trasportarci in una città quasi surreale, esteticamente magnifica, un po' barocca e un po' decadente, sospesa tra presente e passato nella quale si alternano la futilità e la sacralità che una vita può accogliere.
In questo contesto Jep Gambardella, un esteta quasi dannunziano, ormai giunto ai sessantacinque anni, si rende conto del nulla che la sua vita ha prodotto, pur avendo vissuto un'esistenza lontana dalla fatica e dai problemi, in una sorta di realtà parallela che "annulla il tempo" e che viene a galla quando tramonta il sole, (esattamente come in una scena di straordinario piglio inventivo, in cui si vede Jep da vecchio immergersi nel mare davanti ai suoi amici dell'adolescenza e riaffiorare giovane, in un idealistico salto temporale) ed è fatta di estetismo, volgarità, e di una felicità ricercata in modo innaturale e falso.
Ben presto però si rende conto che questa è sempre stata e forse sempre sarà la sua vita, di cui in fondo prova un doppio sentimento, di disgusto ed insieme di piacere, nonostante sia colpito dal dolore per la morte di Ramona (Sabrina Ferilli), una spogliarellsta malata di un male incurabile.
Il finale del film è forse la parte meno "appariscente" ma più decisiva per comprendere, almeno un po', ciò che Sorrentino vuole esprimere.
La visita della suora missionaria infatti, che ha fatto voto di povertà, stona volutamente con la ricca ed altezzosa realtà mondana che via via si dirama durante il film.
Infatti, nel futile ed assordante frastuono del mondo (tutto si risolve in un bla, bla, bla dirà alla fine del film Gambardella), la vecchia suora pronuncia forse le parole più semplici ma profonde di tutto il film: "Io ho sposato la povertà, e la povertà non si racconta, ma si vive", richiamando all'esigenza di tornare alla semplicità e all'umiltà come fonte vera di felicità. E' qui che forse Jep trova la speranza di una nuova vita, più sobria e più semplice, e forse anche più intima e serena, e decide di riprendere il suo lavoro di scrittore.
Insomma, sinceramente non mi sarei mai aspettato da un regista italiano un film di tale spessore, sia estetico che morale, che cade, secondo me, solamente nell'eccessiva lentezza di qualche sequenza prima della fine.
Certo, se pur molto "chiacchierato", non è certo un film per tutti, anzi, forse tutti questi proclami e il suo dirompente ingresso nell'opinione pubblica ne hanno impoverito il valore che, a parer mio è indiscutibile, soprattutto presa in esame la media dei film italiani degli ultimi anni.
Davvero un film d'altri tempi, nel vero senso della parola.
Bravo Sorretino,continua così.
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