Il lavoro in assoluto più ardito e ambizioso del regista napoletano Sorrentino strizza l'occhio a non uno, ma a ben due capolavori felliniani, ossia 8 e 1/2 e la celeberrima "Dolce vita" proponendoci l'affresco di una Roma opulenta solo all'apparenza, amara e supericiale in cui però si può e si deve intravedere una luce in fondo al tunnel dopo esser passati per tutti gli stadi di buio, come in un "Viaggio al termine della notte" citando lo stesso romanzo di Celine che apre questa pellicola applaudita a Cannes 2013. Jap Gambardella è un tuttologo del nulla: è un ex scrittore in crisi d'inventiva tant'è che non scrive un libro da più di dieci anni, ma è anche il re dei mondani, un Gatsby all'italiana che sentitosi arrivato affoga la sua solitudine in rocamboleschi party serali dove la droga, la prostituzione e l'esibizionismo di una serenità di sola facciata serpeggia nella sua casa come un trenino di braccia unite senza destinazione. Ha amato una sola volta in vita sua, ma la donna venerata risale ad un antico adolescenziale ricordo, in cui s'intuisce che l'abbia lasciata scappare troppo presto dalle sue braccia. Con la notizia della morte di Elisa, sua antica ed unica fiamma da tempo sposata con un altro suo conoscente, comincerà il crollo emotivo di Jap, che da disinteressato spettatore di una vita che da tempo non lo appartiene più, comincerà un intricato percorso di redenzione, aiutato in cuor suo dal faro di bellezza più accecante e fugace che abbia mai visto: il volto dell'amore. Toni Servillo, in piena apoteosi di bravura, brillante e profondo come pochissimi attori italiani d'oggi, ha ben poco di Marcello Rubini, personaggio che consacrò per sempre il mito di Mastroianni nel ritratto babilonico di una Roma anni '60, ma l'idea di fondo di Sorrentino non è malvagia affatto: egli tende a ricreare un sequel de "La dolce vita", spinto forse a chiedersi cosa accadde poi a quello scrittore accolto nel mondo mondano da cui era sempre rifuggito, cosa ne fu di quell'uomo che su quella spiaggia salutò ingenuamente per sempre la retta via dell'innocenza e della purezza morale. Jap è un uomo che si è conquistato il suo primato trai mondani, ma ora che ha questo titolo insignificante e ha il potere di far fallire le feste altrui, cosa ne è della sua fallimentare esistenza? Ha compiuto da poco 65 anni e si comporta ancora come quel ragazzino ingenuo che passa senza pensieri da letto di una donna ad un altro...ma è giunto anche per lui il tempo in cui non puoi più fare le cose che non ti soddisfano e come Valeria Giangottini e il suo dolce volto sul finale del capolavoro felliniano, anche qui la morale venduta al diavolo del materialismo è contrapposta all'angelico volto della prima volta con la sua prima donna e in più questa volta nientemeno che ad una santa, che con i suoi cento e passa anni ha ancora l'entusiasmo e la dovizia nella quotidianità, mentre Jap vorrebbe solo sparire come un prestigiatore fa col suo cilindro.
Ero partita credendo che Sorrentino volesse "omaggiarci" di un fedele ritratto di un Italia in declino, colpita come sempre dalla più profonda crisi delle coscienze mai vista più che quella dei portafogli, ma la grande bellezza che ritroviamo nel film non è quella di un paese che riesce ancora fortunatamente ad incantarci con le sue meraviglie, come guardare la basilica di San Pietro al tramonto, è quella interiore di un personaggio che riscopre quanto è bello lo stesso dolore, la stessa commozione per la morte altrui...niente a che vedere con il momentaneo momento di beatitudine che si prova nell'ammire un paesaggio all'inbrunire.
Sulle note contenutistiche della trama pertanto nulla da dire, anzi tanto di cappello per aver riportato alla memoria anche un film immenso come 8 e 1/2, dove uno scrittore in crisi in un percorso onirico e più unico che raro, rieccheggia tutti i suoi amori del passato. Ma qualcosa stride nella sua realizzazione e la regia anti narrativa a sbalzi ripetuti da una moltitudine troppo vasta di episodi e vicende diverse, rende l'insieme freddo e a tratti sconclusionato. Un ottimo inizio, un ottima fine, monologhi commoventi e interpretazione del protagonsita più che lodevole, ma in mezzo c'è un calderone di camei ingiustificati e poco amalgamati con il fil rouge della vicenda. La cosa che mi ha più colpito in negativo è stato vedere i due coprotagonisti, due romani doc come Verdone e la Ferilli, completamente burattinati e poco spontanei, uno in vesti che non gli appartengono manco forzatamente e l'altra nel visto e stravisto ruolo da panterona, fac simile della Bellucci. Martinelli e Pasotti potevano senza dubbio emergere meglio e per più tempo, senza esser sacrificati a due battute di numero. Un'opera forse troppo superba che rieccheggia il "The tree of life" di Malick per la sua megalomane mania registica e che fa tornare in mente il semi-flop di Tornatore con "Baaria", che non riuscì come lo stesso Sorrentino a portare sul vassoio la valanga di ingredienti riuniti in un sostanzioso piatto ben riuscito.
Per me Sorrentino è un regista di sommo valore, ma non riesce a farmi battere il cuore come riescono i film di Garrone, altro italiano sempre da tenere d'occhio per i suoi piccoli capolavori. Un'occasione in parte sprecata, che ci ricorda però quanto sia necessario in tempi come questi non solo tornare all'origine, ma anche all'ancestrale bellezza del nostro animo.
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