È noto che Sergio Leone, parlando, con la arguzia che gli era solita, del Clint Eastwood attore, ebbe a dire: “a quell’epoca aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello”. Questa povertà di mezzi espressivi, sublimata secondo gli estimatori del vecchio Ispettore Callaghan in sobrietà e rigore, è diventata la cifra stilistica della sua opera.
Per questo “American sniper” è “il film” di Clint Eastwood. Qui si parla di guerra, signori. Quella del terzo millennio, ipertecnologica quanto si vuole, ma ancora fatta di uomini, di macerie, di rumore assordante, di sangue che spruzza sempre rosso. È la guerra, disumana, assurda, folle come sempre, altro che videogame.
Ed è parlando di guerra che la basilare sintassi di Eastwood trova la sua massima espressività. Niente mezze tinte: ci sono i buoni (gli americani, ovviamente) ed i cattivi; ci sono valori forti, chiari, incontestabili: Dio, Patria, Famiglia. Non c’è da argomentare: il cattivo lo è indiscutibilmente, i suoi atti sono bestiali (e lo sono senz’altro), ucciderlo è un tragico dovere, anche quando ha le sembianze di una donna o di un bambino: l’american sniper è pronto a rispondere davanti al Creatore di ciascuna delle sue 160 vittime.
La storia è quella di Chris Kyle, il cecchino più infallibile della recente storia militare americana e della sua tragica parabola umana. Educato ad essere il “cane da pastore” che salva le pecore dai lupi, forgiato sulle selle dei cavalli da rodeo, addestrato ad essere una macchina da guerra, un moderno Achille armato del suo fucile e della sue Fede incrollabile, si immerge nell’inferno iracheno fino a diventarne parte inseparabile (i nemici lo chiamano il “Diavolo” di Ramadi), fino a non saperne più uscire fuori.
Così come il suo eroe, anche Eastwood, con la sua macchina da presa, è a suo agio sul campo di battaglia. Le scene di guerra sono perfette e fanno di “American sniper” uno dei capolavori del genere: nude nello squallore delle città diroccate e deserte, assordanti dello stridore dei cingoli, del crepitio degli spari, del tonfo dei boati, esasperate nella tensione continua e portata allo spasimo; fra le altre, memorabile per drammaticità e suggestione la battaglia nella tempesta di sabbia.
Il vecchio cowboy non rinuncia però a strumenti narrativi che gli sono noti o cari: anche nell’inferno di Ramadi la guerra può diventare un duello da “Mezzogiorno di fuoco” tra il nostro sniper “buono” e l’implacabile cecchino cattivo, sfida a due da risolvere con un colpo impossibile di cui seguire, rallentata, la traiettoria.L’occhio di Eastwood è fotografico: non giudica, mostra al pubblico. Il dito sul grilletto, tremante prima di far fuoco su un bambino, la crudeltà dei torturatori, il dolore, le urla, il sangue. Con altrettanta onestà racconta la guerra che continua al di fuori dei campi di battaglia: il disgusto delle amputazioni, le protesi, il dramma delle famiglie e soprattutto la lotta contro il PTSD, il disturbo post traumatico da stress, il nemico silenzioso e letale come un guerrigliero khmer, diffusosi come una pandemia negli States già dai lontani tempi del Vietnam.
Fino a che punto ha senso la gloria, si chiede una madre davanti alla bara del figlio, e questo forse è il senso del film. Ma non c’è condanna: la fede di Eastwood è salda come quella del suo soldato. Gli americani restano i buoni, i “cani da pastore” del mondo, e il suo cecchino, uccisore di 160 nemici, fra cui donne e bambini, è un eroe da celebrare con dispiego di bandiere (pietosamente fra l’altro vengono taciute pagine oscure della vera vicenda di Kyle, macchiatosi di un duplice omicidio e salvato dai suoi gloriosi trascorsi bellici). Tutto il male viene dichiarato, è vero, ma appare solo una dolorosa necessità.
Dio sa quanto siamo lontani da questa visione e dall’imperialismo americano. Però non possiamo non riconoscere a Clint Eastwood l’onestà cristallina e la convinta fede nei suoi valori. Ma soprattutto, dopo questo film, non elevarlo nell’empireo dei grandi registi e dei grandi narratori del nostro tempo.
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