Alaska

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Il racconto, finalmente Valutazione 4 stelle su cinque

di ValterChiappa


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sabato 27 gennaio 2018

Da Parigi a Milano. Dalla miseria alla ricchezza. Possedere tutto ciò che è inutile o avere ciò che solo necessario. Può l’amore rimettere in sincrono due vite pericolosamente oscillanti su sinusoidi ripidissime che sembrano tracciate in un diabolico, perenne sfasamento?
Le esistenze di Fausto (Elio Germano), ambizioso maître italiano di un albergo di lusso di Parigi, caduto in disgrazia per una bravata e Nadine (Astrid Bergès-Frisbey), disincantata ragazza della provincia francese che si trova quasi controvoglia a diventare una modella di successo, sembrano essere indissolubili. Eppure i due faranno di tutto (nulla nella storia è lasciato al destino) per distanziarsi.
“Alaska”, il nuovo film di Claudio Cupellini (“Lezioni di cioccolato”, “Una vita tranquilla”) è innanzitutto il racconto dell’insoddisfazione. Questo è il tarlo che rode da dentro Fausto, allontanandolo da una felicità che sembra essere a portata di mano, questa la forza endogena che fa ribollire un mare che non desidererebbe altro che essere placido. Emblematico lo stesso titolo del film, che evoca una terra promessa tanto utopica e lontana, quanto gelida ed inospitale.
La bramosia di potere, l’avidità di una sempre maggiore ricchezza condurranno i due su un percorso altalenante come montagne russe, sempre più distante dal percorso invece tenacemente retto e costante dell’amore, che però niente e nessuno potrà arrestare.
Sì perché “Alaska” è un film romantico, anzi spudoratamente romantico. Ma come ogni grande storia d’amore, quella fra Fausto e Nadine cresce e si fa bella attraversando il mare in tempesta di infinite traversìe. E la vicenda costruita da Cupellini, assieme ai co-sceneggiatori Filippo Gravino e Guido Iuculano, è una vera e propria odissea, traboccante di eventi fortissimi, di colpi di scena, di situazione al limite. C’è un poderoso lavoro di scrittura dietro “Alaska”: vicende infinite che si incastrano, pur seguendo un filo solidissimo e una corte di personaggi tratteggiati con contorni precisi, come in vecchio romanzo di appendice, concentrato nelle due ore della pellicola.
È la rivincita della storia. Finalmente, vorremmo dire. Dopo tanti film criptici, minimali, in punta di penna (e ben ne conosciamo i risultati quando la mano non è più che felice), è bello godere nuovamente della trama che ci avvince e ci incolla alla poltrona. E cosa importa se è poco credibile? È finzione, signori, deve farci emozionare, commuovere, sognare. Non deve essere vera. Se poi, come in “Alaska”, è anche verosimile usciremo dalla sala camminando su un letto di nuvole, col cuore gonfio e gli occhi lucidi, prima di riposare i piedi sul grigio suolo della realtà quotidiana.
È forse ridondante la sceneggiatura di “Alaska”; qualche volta va sopra le righe (come credere che un galeotto senza arte né parte sia atteso all’uscita dal carcere da una modella bella come un angelo?); alcuni personaggi sono meramente letterari nel senso meno nobile del termine, come Sandro (interpretato da un peraltro superlativo Valerio Binasco), il pittoresco socio con cui Fausto prende in gestione il locale che dà il nome al film. Ma questo, almeno per chi vi scrive, viene da una analisi condotta davanti al bianco di una pagina. Durante la proiezione, quando il cervello tace e a condurci per mano è un cuore fanciullesco, “Alaska” appaga a pieno, riconducendoci a casa con la soddisfazione che solo un ottimo film può dare.
Non si può tacere il ruolo che in questo viaggio emotivo hanno le interpretazioni dei protagonisti. Elio Germano (che, ricordiamolo, è il nostro migliore attore), si carica sulle spalle il peso onerosissimo di tanta scrittura, sfoggiando l’ennesima grande prestazione. Forse attinge troppo dal suo stesso repertorio (in certi momenti sembra di rivedere l’Accio di “Mio fratello è figlio unico”), a tratti si lascia prendere dall’istrionismo, ma è fuor di dubbio che è la sua interpretazione il propellente necessario per far camminare il possente motore costruito da Cupellino. Astrid Bergès-Frisbey per conto suo non mette in campo solo l’eterea bellezza, ma, impallidendo il bel viso, sa diventare dolente, percossa, sofferente, ben assecondando l’andamento drammatico del testo.
La fredda ragione può, analizzando, trovare altro da obiettare. Ma, a concludere queste poche righe, parlerà lo spettatore e non il critico. E la sua voce, senza esitare, dirà: “Alaska” è un film bellissimo

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