Densità di avvenimenti, svolte, climax, colpi di scena in un film capace di raccontare l'identità italiana della scalata sociale ed economica.
di Roy Menarini
Già un film italiano che contiene brani di Blonde Redhead e Interpol, dove si parla in francese sottotitolato per la prima mezzora, e nel quale recitano facce come Roschdy Zem, mette di buon umore. Finalmente si respira un'altra aria. Un po' di quel cosmopolitismo che un tempo il nostro cinema possedeva in larga quantità torna a circolare, da Saverio Costanzo che gira in America Hungry Hearts, alle sortite internazionali di Garrone e Sorrentino, dalla Germania di Una vita tranquilla dello stesso Cupellini all'Albania di Vergine giurata, e gli esempi potrebbero continuare. E anche ascoltare i nostri attori recitare in francese, albanese, tedesco, inglese, spagnolo (Scamarcio in La prima luce, ambientato in larga parte in Argentina) scuote dal rischio di provincialismo la produzione del nostro paese.
Alaska è un gran bel film, non solo perché mescola le lingue, cita il rock internazionale, o fa scorrere le passioni primarie a profusione. Lo è anche per altri motivi. Da una parte citeremmo la pulsione narrativa romanzesca e totalizzante. Se qualcuno rimprovera - per esempio - a Suburra di somigliare troppo a un pilot per una futura serie, di Alaska potremmo dire che la serie è già tutta compressa nelle due ore abbondanti. Densità di avvenimenti, svolte, climax, colpi di scena, personaggi secondari che spalancano sottotrame (talvolta troppo presto sterilizzate per evidenti motivi di spazio) avrebbero tranquillamente retto una miniserie da 4-6 episodi. Sapendo che nessuno, probabilmente, avrebbe prodotto in Italia una serie così, con questi contenuti, Cupellini e i suoi sceneggiatori devono aver messo in centrifuga il materiale narrativo, anomalo e appassionante, per farne uscire il film che abbiamo sotto gli occhi.
La seconda ragione riguarda quel che scorre tra le azioni, che talvolta sono così impellenti, brucianti e a forma di montagna russa, che - a quanto si legge - vengono prese più che altro per melodramma da elogiare ma in fondo del tutto autonomo dalle realtà sociali italiane. Ovviamente, anche se fosse così, ben venga: serve al cinema italiano una produzione di generi, passioni e grandi narrazioni emotive.
Eppure, a guardare bene, Alaska sa anche raccontare un'identità italiana poco esplorata, quella della scalata sociale ed economica, quella dell'irriflessività giovanile, quella dell'impresa, da scrivere in corsivo perché contiene tutti i significati - anche economici - del caso. Il Fausto interpretato da Elio Germano rappresenta una sorta di intensificazione estrema e drammatica del dinamismo generazionale, quello che l'Italia tende sempre a soffocare. Fin dal primo dialogo, Fausto gioca sugli stereotipi del latin lover (conquista Nadine lavorando sul repertorio del seduttore italiano e scherzando sull'amore per il sole mediterraneo). Il suo saliscendi sociale (dalla galera all'hotel cinque stelle) non è storia che il nostro cinema racconta di solito, e non è nemmeno la grande narrazione cui siamo abituati parlando dei venti-trentenni di oggi. Il dinamismo giovanile però fa una brutta fine in Alaska. Quasi a smentire involontariamente le parole del responsabile dell'anticorruzione, Raffaele Cantone, su Milano come capitale morale, qui la città lombarda è un brulicare di morti di fame arricchiti, gestori che spacciano nel retro di un bar, imprenditori strozzini, balordi da discoteca che girano con la pistola, e altre spietatezze professionali.
E così questa storia su due persone che forse non avrebbero dovuto incontrarsi - e di cui Cupellini, pur stando dalla loro parte, non cela mai la dimensione di fragilità e rovinosa sventatezza, che chiama a sé tutti i rovesci e le avversità del Fato - diventa anche un ritratto interessante del conflitto italiano tra la forza dirompente della giovinezza e lo spappolamento sociale, economico, imprenditoriale pronto a travolgerla. Fausto e Nadine sono due sprovveduti, insomma, ma gli avvoltoi che li circondano pronti per mangiarseli.
Ed è anche il motivo per cui Alaska si fa perdonare alcuni cali di vento, per come sa intuire qualcosa che circola nell'aria culturale del Paese e trasformarlo in una specie di romanzo salgariano della metropoli.