La grande bellezza |
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Un film di Paolo Sorrentino.
Con Pamela Villoresi, Franco Graziosi, Pasquale Petrolo, Serena Grandi, Maria Laura Rondanini.
continua»
Drammatico,
durata 150 min.
- Italia, Francia 2013.
- Medusa
uscita martedì 21 maggio 2013.
MYMONETRO
La grande bellezza
valutazione media:
3,36
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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La grande bellezzadi catcarloFeedback: 13499 | altri commenti e recensioni di catcarlo |
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martedì 8 ottobre 2013 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
L’essere stato scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar ha riportato in sala ‘La grande bellezza’ e così – visto che me l’ero perso all’uscita – ho potuto recuperare quest’ambiziosa opera del napoletano Paolo Sorrentino che, in due ore e un quarto, racconta – o, per meglio dire, ‘mostra’ – come la capitale sia corrotta (e forse pure la nazione sia infetta). Però: la capitale? Roma è a pieno titolo la coprotagonista del film, ma forse sarebbe più giusto dire che lo sono i suoi monumenti, i marmi freddi e le strade svuotate (compresa una malinconicissima Via Veneto) che fanno da sfondo al dibattersi esistenziale di Jep Gambardella, scrittore tecnicamente fallito - autore di un solo romanzo quarant’anni prima – che se ne va alla ricerca della grande bellezza dove è impossibile trovarla, tra arricchiti con gradazione variabile di cafonaggine dediti a party in cui rincoglionirsi (droga, alcool, sesso a basso costo, musica da bidone della spazzatura) e un piccolo circolo di amici vagamente intellettualoidi ognuno con il proprio scheletro nell’armadio. Dalla sua terrazza con affaccio sul Colosseo, la normale quotidianità non si vede o quasi e quando Jep la incontra, come in Alfredo e Polina o anche in Ramona, la riconosce come migliore: è inevitabile, allora, che per superare l’impasse nella sua vita, il protagonista debba tornare da dove è partito, geograficamente e sentimentalmente. Per raccontare tutto questo, Sorrentino – che è anche autore del soggetto poi sceneggiato insieme a Umberto Cottarello – sceglie la strada più tortuosa, filmando il viaggio di Jep in modo quasi ondivago, con la relazione fra le singole parti debole se non mancante del tutto. Un andamento erratico, preannunciato dalla citazione celiniana in esergo, che gli consente di accumulare simboli, citazioni ammiccamenti in assoluta libertà: se qua e là c’è qualche eccesso o ripetizione – la mostra delle foto si può giustificare solo perchè consente di ammirare Villa Giulia – l’insieme funziona. Non poco viene in soccorso una parte visiva curatissima e raffinata, grazie a una scelta di inquadrature che, malgrado la ricercatezza artistica, non risulta mai fine a se stessa sia negli interni tra chiaroscuri e costruzioni di piccoli quadri, sia negli esterni sullo sfondo (e nel cuore) della Città Eterna e della sua storia – e allora è giusto citare anche Luca Bigazzi, direttore della fotografia. Si tratta dello stesso modo di raccontare che aveva azzoppato il precedente ‘This must be the place’: qui invece la misura è quella giusta e, malgrado l’esilità dell’assunto, la non breve durata scorre senza alcun momento di stanchezza. Sempre azzeccata si rivela inoltre la scelta delle musiche, che alternano la partitura originale - leggermente ansiogena – di Lele Marchitelli, l’algida purezza della classicità e, di contrasto, il becerume sonoro più assoluto (compreso il ripescaggio di una delle cose più terrificanti degli ultimi anni. ‘We No Speak Americano’ di Studio Allstars, un delitto da lavori forzati a vita): si tratta, infatti, degli estremi fra cui si dibatte Jep, al quale un al solito bravissimo Toni Servillo, fumando come una ciminiera, regala lo spessore e la forza per sostenere l’intero film. Attorno a lui è un turbinare di figure, affidate a notevoli interpreti spesso di estrazione teatrale, che troppo spesso si riducono a veloci bozzetti mentre non possono mancare i cammei di personaggi famosi, da Venditti – David Byrne era meglio, eh? – a Fanny Ardant, la cui presenza si scusa col fatto che si tratti di Fanny Ardant. Un po’ più di tridimensionalità viene concessa solo al Romano di un Carlo Verdone lontanissimo dai suoi soliti personaggi e, soprattutto, alla Ramona (quasi un anagramma) di una sorprendente Sabrina Ferilli. L’idea che il personaggio ammicchi a Moana Pozzi può essere valida oppure no: certo il suo destino contribuisce a creare quel clima di malessere che aleggia su tutta la pellicola, con un atteggiamento cinico verso la sventura e la morte che il regista sembra condividere con i suoi personaggi. Basti vedere la lezione, intrisa di humour nero, che Jep impartisce su come comportarsi ai funerali: sì, perché, a dispetto di quanto scritto sopra, in questo film si ride anche parecchio, seppure magari a denti stretti, tra l’intervista all’artista virtuale, la demolizione verbale di Stefania, il cardinale esorcista e gastronomo, la Santa che mangia solo radici al limone. Alla fine, ‘La grande bellezza’ si dimostra un ottimo film, anche se qualche innegabile difettuccio lo tiene lontano dallo status di capolavoro: si tratta di imperfezioni, del resto, connaturate al modo di fare cinema di Sorrentino, a cominciare dalla tendenza ad accumulare di tutto e di più anch’essa già presente in ‘This must be the place’. Quando arrivano la giraffa a Caracalla e i fenicotteri sulla terrazza non è più possibile slalomare attorno al nome di Fellini: malgrado i dinieghi del regista, ‘La dolce vita’ e ‘Roma’ sono riferimenti inevitabili, ma, potesse ancora andare al cinema, il grande Riminese ne sarebbe contento.
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