L'arrivo di un ragazzo palestinese in un piccolo villaggio israeliano fa emergere il naturale razzismo di un popolo. Espandi ▽
Da uno degli attori del cult
Big Bad Wolves, una dramma paradossale, in bilico fra gli opposti della tragedia e della commedia, che si pone in maniera esplicita come una metafora del conflitto israeliano-palestinese e soprattutto della difficoltà di raccontarlo con un tono adatto.
The Cousin, che prende il nome dalla vicenda biblica di Ismaele e Isacco, fratellastri che avrebbero dato via alla progenie araba ed ebraica, dunque a due identità unite dal sangue e dal territorio ma fatalmente divise dalla storia, usa gli elementi cinematograficamente classici del villaggio chiuso, della casa da costruire, dello straniero che interrompe idealmente un idillio per far esplodere conflitti sopiti e, come dice lo stesso protagonista, naturali. La relativa piattezza della regia di Tzahi Grad (e soprattutto della fotografia digitale di Eitan Hatuka), serve a sottolineare la normalità di una situazione in cui anche le persone disposte al dialogo cedono al razzismo più bieco e le stesse vittime si adattano perfettamente al ruolo di agnelli sacrificali.