gaiart
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domenica 10 settembre 2017
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“la guerra non restaura diritti, ridefinisce poter
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FOXTROT
di
Samuel Maoz
“La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri”.
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FOXTROT
di
Samuel Maoz
“La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri”.
Hannah Arendt
Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia.
Otto von Bismarck
In guerra mi facevano più impressione i vivi, che i morti. I morti mi sembravano dei recipienti usati e poi buttati via da qualcuno, li guardavo come se fossero bottiglie rotte. I vivi, invece, avevano questo terribile vuoto negli occhi: erano esseri umani che avevano guardato oltre la pazzia, e ora vivevano abbracciati alla morte.
Nicolai Lilin
Un robottino giocattolo, verde elettrico con pistola, un dromedario, piastrelle grigie esagonali, un album di disegni originali, una sirena con la coda staccata in un tatuaggio.
Con pochi potenti, indelebili, elementi si delinea un film prestigioso, con l’eleganza di un Sorrentino israeliano: il regista Samuel Maoz, per intenderci quello che vinse il Leone d’Oro con Lebanon, ora a Venezia conFoxtrot.
Si perchè di ballo si tratta, seppur in guerra, in un paese che vive l’attimo più di altri.
“Il foxtrot, ovunque si vada, porta sempre nello stesso punto” dice il protagonista e, con questa massima e su questa linea, si svolge il meraviglioso e potente film.
Elicoidale su se stesso, avvolto, assieme al paese e ai suoi protagonisti, nelle proprie spirali energetiche, di memoria e di errore sia storico, che militare, che famigliare.
Un padre nasconde la propria fragilità, assieme ad un errore commesso da militare che perseguita la sua memoria, la sua autostima, generando un senso di colpa indelebile. Questo intacca la famiglia, la moglie, i figli come un sasso che gettato nello stagno genera onde concentriche.
Infatti Michael e Dafna sperimentano il più grande dei dolori quando si presentano dei funzionari dell'esercito che comunicano la morte del loro figlio Jonathan mentre si trovava impegnato in un remoto avamposto.
Il sonoro nella prima parte del film, girata nell’elegante casa di questo architetto posh, gioca fin da subito un ruolo rilevante per convogliare uno stato di ansia, di aggressione estrema: la stessa che, in sostanza, Israele vive quotidianamente nella violenza delle sue giornate e della sua politica.
Qui urla, botte, porte che sbattono, colpi improvvisi, il guaire di un cane, suoni di campanelli, reiterati allarmi sul telefonino convogliano fin dal primo istante un senso di tensione nello spettatore.
E il regista, in questo modo, è bravo a passare empatia negativa a chi non conosce la vita in Israele.
Poi, out of the blue, un twist imprevedibile del film conduce in un ballo divertente di un giovane in armi nel deserto del Negev, mentre abbarbicato al suo fucile come fosse una bionda formosa, si avventura in un’antica forma di breakdance che ha del tragicomico.
Ottima la fotografia e la grafica del film che si palesa anche con dei cartoons che spezzano tensione e aggiornano il ritmo.
Indubbiamente l’approccio artistico numeroso si svela in disegni, opere d’arte nei muri, in una grande fotografia di alberi in bianco e nero, come una guerra i cui risultati non transigono.
Gli attori, tutti credibili, autentici; geniale la presa di posizione verso la stupidità di una guerra perenne, verso l’occupazione e i posti di blocco in mezzo al deserto, in cui giovani (militari per caso) sono ignari e lontani dal tema della morte, forse perché ancora intrisi di playstation e latte materno.
Fino a quando non la devono inutilmente sperimentare - la morte- proprio sulla loro pelle o su quella di altri giovani innocenti.
Toccato dal vivo, come racconta in conferenza stampa, il regista racconta una storia reale relativa a quando credette di aver perso sua figlia in un attentato terroristico nell’autobus che la portava a scuola. Invece proprio quella mattina per caso aveva preso un taxi perché in ritardo, salvandosi.
Il film è sconvolgente e merita di vincere un premio. Non il leone d’oro che non basterebbe, ma magari il Nobel per la pace.
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[+] la danza beffarda del destino
(di antoniomontefalcone)
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vanessa zarastro
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sabato 24 marzo 2018
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l’ineluttabilità del fato
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Un film intenso ed emotivamente impegnativo che parla della casualità delle vite e delle morti e dell’ineluttabilità del fato.
Il film presenta tre episodi della vita di una famiglia israeliana a Tel Haviv. O meglio una tragedia in tre atti.
Lui è Michael Feldman, un architetto di successo che ha sposato Dafna (Sarah Adler), una donna più giovane. Dopo un periodo d’innamoramento vissuto in una mansarda sul mare, lei era rimasta in cinta, hanno avuto due figli Yonatan e Hannah e si sono trasferiti in un moderno e più grande appartamento. La mamma di Michael, una tedesca ebrea che ha conosciuto gli orrori di Auschwitz, vive in una casa di riposo.
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Un film intenso ed emotivamente impegnativo che parla della casualità delle vite e delle morti e dell’ineluttabilità del fato.
Il film presenta tre episodi della vita di una famiglia israeliana a Tel Haviv. O meglio una tragedia in tre atti.
Lui è Michael Feldman, un architetto di successo che ha sposato Dafna (Sarah Adler), una donna più giovane. Dopo un periodo d’innamoramento vissuto in una mansarda sul mare, lei era rimasta in cinta, hanno avuto due figli Yonatan e Hannah e si sono trasferiti in un moderno e più grande appartamento. La mamma di Michael, una tedesca ebrea che ha conosciuto gli orrori di Auschwitz, vive in una casa di riposo.
Yonatan (Yonatan Shitay), abile disegnatore e poco più che ventenne, parte militare (due anni sono obbligatori) e un giorno Michael e Dafna ricevono l’indicibile notizia della morte del figlio. Lei sviene e viene sedata e per un po’ di ore dormirà, mentre lui ha delle reazioni dolorose di chiusura al mondo alternati a violenti scoppi di rabbia. Qui la macchina da presa svolge un compito importante: il suo dolore è decritto o con viste all’altezza del pavimento con scarpe e piedi che si muovono ad altezza dello zoccoletto, o con viste dall’alto che lo inquadrano in sfoghi solipsisti e claustrofobici. Infatti, gli mancherà l’aria e uscirà per andare a informare sua madre, che alla fine del colloquio lo scambia con il fratello Avigdor (Yehuda Almagor).
Nel pomeriggio arrivano due militari che lo informan dell’equivoco: suo figlio è vivo ed è stato un caso di omonimia. In un attacco d’ira Michael pretende che il figlio venga fatto rientrare subito a casa.
Il secondo atto mostra Yonatan con i suoi commilitoni a un posto di blocco nel deserto. Questo quadro forse è il più interessante del film con visioni statiche, dialogo che sono quasi più monologhi. Un grande vuoto riempito solo dalla danza circolare in quattro tempi del ragazzo, il fox-trot, che riporta i passi sempre sulla stessa posizione di partenza. Grande senso dello squallore pervade questo middle of nowhere, dove passano qualche isolato cammello e pochissime macchine. La paura di un attentato terroristico crea una tensione altissima. Infatti di notte, da un’auto con quattro ragazzi un po’ su di giri, esce una lattina che viene scambiata per una granata e i commilitoni spareranno. L’equivoco a generato una tragedia. Il ragazzo viene richiamato a casa.
L’ultimo atto, forse quello meno riuscito ma anche quello più intimista, è proiettato qualche tempo dopo (mesi? anni?). Si evince che Michael e Dafna si siano separati e si incontrano per commemorare il figlio nel giorno del suo compleanno. Stavolta Yonatan è davvero morto perché l’auto che lo stava riportando a casa ha avuto un incidente e per evitare di rendere un cammello è finito nel burrone.
I due si rinfacciano varie cose, o meglio lei colpevolizza il marito che man mano si apre e ricorda. Trovano della marjuana del figlio in un cassetto e si fanno una canna. Il film finisce con loro due che sembrano invecchiati di vent’anni e si sostengono come una coppia veterana.
Foxtrot – La danza del destino è un film surrealista drammatico che presenta una commistione di generi: ironico (i vari fumetti), tragico e comico (il balletto nel deserto in coppia con un fucile).Samuel Maoz ha realizzato questo film dopo un fatto realmente accadutogli: sua figlia è scampata a un attentato per essere arrivata in ritardo e aver preso l’autobus successivo a quello che è esploso per una bomba. Presentato alla 74esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2017, il film ha ottenuto il premio per la miglior regia ed è stato selezionato per rappresentare Israele agli Oscar 2018.
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peergynt
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martedì 5 settembre 2017
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la guerra e la colpa
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Film dall'incipit fulminante: qualcuno che non vediamo suona ad una porta, apre una donna, la voce fuori campo chiede: "Signora Feldmann?" e la donna sviene. Resta in primo piano un quadro appeso al muro, il disegno in bianco e nero di un tunnel angoscioso. Lo spettatore si chiede perché, e lo scopre vedendo che le persone che hanno suonato alla porta sono militari: la donna ha un figlio soldato, loro sono venuti a comunicarle che il ragazzo è caduto nell'adempimento del suo dovere.
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Film dall'incipit fulminante: qualcuno che non vediamo suona ad una porta, apre una donna, la voce fuori campo chiede: "Signora Feldmann?" e la donna sviene. Resta in primo piano un quadro appeso al muro, il disegno in bianco e nero di un tunnel angoscioso. Lo spettatore si chiede perché, e lo scopre vedendo che le persone che hanno suonato alla porta sono militari: la donna ha un figlio soldato, loro sono venuti a comunicarle che il ragazzo è caduto nell'adempimento del suo dovere.
Il film, diretto da Samuel Maoz (che vinse nel 2009 il Leone d'oro col film "Lebanon"), ha il pregio non solo di idee cinematograficamente riuscite come questa ma anche di una costruzione rigorosa e stringente sul tema tipicamente ebraico della colpa, che in qualche modo va scontata, e sull'assurdità della guerra, rappresentata da un posto di blocco dove quattro giovani militari attendono qualcosa che non si verifica mai.
Sorta di dramma dell'assurdo, il film spicca per intelligenza nel panorama dei film presentati alla 74. Mostra del cinema di Venezia.
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carlosantoni
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lunedì 26 marzo 2018
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danzando su un piano inclinato
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C'è un mezzo che si muove arrancando su una strada dissestata in mezzo a un deserto, sotto un cielo torvo. è un mezzo militare, ma ancora non si sa. Qualcuno poi suona a una porta, apre una donna, chi ha suonato, fuoori campo, chiede con tono greve: "Signora Feldmann?". Per tutta risposta, dopo un attimo di smarrimento, Daphna Feldmann sviene. Chi ha suonato alla porta la soccorre prima che cada per terra, si vede che sono militari israeliani, s'intuisce la tragedia. I militari sono giunti a quella famiglia per recare la notizia che il loro ragazzo, Yonathan, è caduto mentre svolgeva il suo servizio. Seguono scene di disperazione intensissime, prive di mediazione.
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C'è un mezzo che si muove arrancando su una strada dissestata in mezzo a un deserto, sotto un cielo torvo. è un mezzo militare, ma ancora non si sa. Qualcuno poi suona a una porta, apre una donna, chi ha suonato, fuoori campo, chiede con tono greve: "Signora Feldmann?". Per tutta risposta, dopo un attimo di smarrimento, Daphna Feldmann sviene. Chi ha suonato alla porta la soccorre prima che cada per terra, si vede che sono militari israeliani, s'intuisce la tragedia. I militari sono giunti a quella famiglia per recare la notizia che il loro ragazzo, Yonathan, è caduto mentre svolgeva il suo servizio. Seguono scene di disperazione intensissime, prive di mediazione. Il padre Michael rimane al centro dlle scena, la madre invece è stata immediatamente sedata. La mdp si alza e riprende la scena il perfetta verticale, poi ruota lentamente su se stessa con un effetto di massimo spaesamento, fa girare la testa, forse come sta girando al protagonista, colto da una notizia così terribile. Durante il film la mdp continuerà più volte a volare alta, a scrutare in basso. Altre volte, in scene d'interno, se ne resterà invece immobile, fissa sui suoi soggetti in dialogo, come ci trovassimo a teatro. La fotografia è cupa, oscura, morbida, ovattata, il clima quasi sempre inclemente. La colonna sonora a volte assente, a volte commenta, senza mai eccedere. La recitazione degli attori, a cominciare dai due protagonisti, il padre Michael (Lior Aschkenazi) e Dahna (Sarah Adler) è intensa e credibile.Ma ciò che fa del film di Maoz un gran bel film, sono due altri aspetti. Il primo, la disinvoltura, la sapiente spavalderia, con la quale il regista mescola i generi, in maniera che può anche risultare scioccante, passando senza soluzione di continuità dalla tragedia alla commedia, qua e là con incursioni nel genere musicall o fumettistico: modalità espressive distonanti che attingono, credo, all'ironia tipica della cultura yiddish: una modalità per cercare di superare il dolore incontenibile della perdita di un figlio, che tuttavia tale resta. Il film è pieno di rimandi simblici al fato, e al tempo stesso alla disumana stupidità della vita intesa come guerra coninua e priva di scopo. Il cammello svolge il suo ruolo simbolico di accidentalità, mentre il container sempre più innclinato allude ad una situazione politica, e umana, estremamente precaria. Così il foxtrot, un ballo che proprio come la guerra si muove nelle quattro possibili direzioni, per far sì che poi alla fine il ballerino si ritrovi semplicemente allo stesso punto di partenza. Eccellente la sceneggiatura, tripartita e drammaticamente imprevedibile, ma non poi così tanto: in fondo si capisce subito che il babbo ha ragione a temere, a non fidarsi delle buone notizie: il destino è cattivo, proprio come lo siamo noi uomini. Bellissimo film, intenso, emozionante, umanissimo. Un dovere vederlo.
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miguelangeltarditti
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lunedì 2 aprile 2018
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destino y guerra
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El director Samuel Maoz, israelita, con una producción cinematográfica realizada entre Israel, Alemania, y Francia, produce este film premiado en el último festival de Venecia, Italia. Ya había ganado en el 2009 el León de Oro en el mismo festival, por su “Lebanon”.
De interesante profundidad filosófica y de una gran belleza cinematográfica, que se contrapone como estética y contenido, a ese cine consumista y facilista que llega en cantidades aberrantes a las salas ávidas de ganancias en boletería, y que banalizan las posibilidades didácticas del arte del cine.
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El director Samuel Maoz, israelita, con una producción cinematográfica realizada entre Israel, Alemania, y Francia, produce este film premiado en el último festival de Venecia, Italia. Ya había ganado en el 2009 el León de Oro en el mismo festival, por su “Lebanon”.
De interesante profundidad filosófica y de una gran belleza cinematográfica, que se contrapone como estética y contenido, a ese cine consumista y facilista que llega en cantidades aberrantes a las salas ávidas de ganancias en boletería, y que banalizan las posibilidades didácticas del arte del cine.
“Foxtrot”,es un film con momentos de surrealismo, que propone esa pregunta sin respuesta, que nos hacemos cuando pensamos en nuestro destino. Abre la discusión sobre determinismo cósmico o indeterminismo del ser humano, posibilitado o no, a elaborar su propio proyecto de vida. Si todo ya está determinado, se desresponsabilizarìa la vida del ser humano, cosa que sería muy cómodo para justificar nuestra inacción. Para no hacernos cargo de nuestros pasos. Para no gobernarnos con nuestro propio raciocinio.
Samuel Maoza los 20 años entraba, en 1982, como soldado con un carro armado israelita en la invasión al Líbano, por lo cual sabe de guerra, y vuelca en el film un grito critico al absurdo de la guerra.
La guerra no hiere solo con las bombas, destruye también con la inacción; la inacción de la espera es altamente nociva, la guerra no se nota solo en el estruendo de las bombas, sino también en el silencio destructivo, interno, intrínseco del ser humano que participa de ella. Sin mencionar el efecto aniquilador de las sociedades que sufren la guerra como víctimas.
O sea que “Foxtrot”, (que en la realidad es una danza amable), habla, como film, de la guerra inhumana. Y no solo.
Filosofa además sobre el destino. Se pregunta si el destino puede ser modificado, o si es inapelable. Usa entonces la metáfora del foxtrot, que tiene como coreografía, pasos ya determinados y fijos y que no pueden ser cambiados.
La vida también es una danza con pasos fijos, y no modificables, es el determinismo implacable. Son las dos líneas ideológicas del film: el horror de la guerra y la inapelabilidad del destino.
Personalmente coincido con lo primero y disiento con lo segundo, porque hago votos por una vida donde el hombre, al menos en parte, sea artífice de su programa existencial, que lo pueda construir con su libre albedrio con la capacidad del intelecto.
Pero el film es muy interesante porque provoca la reflexión del alto pensamiento, porque su elaboración no tiene concesiones banales, porque el lenguaje visual y estético es excelente, sub real por momentos, porque es personal en su narración (con ese camello que pasa delante de los soldados, casi insolentemente, con una oculta simbología de muerte inquietante).
Bravos los actores:Lior Ashkenazi, Sara Adler, Yonatan Shiray, Gefen Barkai, Dekel Adin
michelangelotarditti@gamil.com
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flyanto
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martedì 3 aprile 2018
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la danza della vita
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"Foxtrot" simboleggia, come i passi dell'omonimo ballo, l'andamento della vita che, facendo percorrere diverse direzioni, poi conduce sempre al fine stabilito. Da qui l'impotenza dell'uomo di fronte al Fato.
Ad una famiglia viene annunciata la morte del proprio figlio militare stanziato in un posto di blocco posto al confine del Paese.
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"Foxtrot" simboleggia, come i passi dell'omonimo ballo, l'andamento della vita che, facendo percorrere diverse direzioni, poi conduce sempre al fine stabilito. Da qui l'impotenza dell'uomo di fronte al Fato.
Ad una famiglia viene annunciata la morte del proprio figlio militare stanziato in un posto di blocco posto al confine del Paese. Il dolore dei genitori è immenso e, sia pure in uno stato emotivo di profonda disperazione, vengono intrapresi i preparativi per il funerale. Nel frattempo viene loro annunciata la notizia dello sbaglio d'identità e che pertanto il ragazzo è ancora vivo e compie il proprio dovere di soldato nella propria postazione militare al confine. Da questo momento si verificherà una serie di avvenimenti che porteranno ad un'unica ed inevitabile conclusione....
"Foxtrot" è una pellicola divisa in quattro parti o capitoli in cui vengono alternativamente rappresentati lo stato d'animo e le azioni dei genitori e quelli del ragazzo nella sua attività di soldato. L'andamento, pertanto, di ciò che viene raccontato come, appunto, un ballo simboleggiante l'esistenza umana, ha un inizio che riconduce, chiudendo come fosse un cerchio, ad una fine che in pratica è già presente sin dall'inizio. Un film molto particolare e profondo emotivamente parlando e colmo di una suggestiva simbologia che induce lo spettatore a riflettere seriamente sull'esistenza, sul valore di essa e sul Destino e l'operare invano umano.
Delicato e melanconico allo stesso tempo.
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gaiart
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domenica 28 ottobre 2018
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green book e l'atlante del possibile
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Genius is not enough. It takes courage to change the people’s soul.
Quando c'è bellezza, sensibilità, eleganza, ironia, professionalità, cultura, simpatia e un pò di umanità allora si toccano i vertici.
E' questo il caso del film Green book. Per chi non lo sapesse il Green book era in realtà una sorta di atlante per gli spostamenti dei neri negli anni '60 in America, una lista di alberghi, motel, ristoranti e luoghi dove era loro consentito sostare, mangiare, in sostanza vivere, senza essere menati, insultati, cacciati, come invece succedeva spesso altrove.
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Genius is not enough. It takes courage to change the people’s soul.
Quando c'è bellezza, sensibilità, eleganza, ironia, professionalità, cultura, simpatia e un pò di umanità allora si toccano i vertici.
E' questo il caso del film Green book. Per chi non lo sapesse il Green book era in realtà una sorta di atlante per gli spostamenti dei neri negli anni '60 in America, una lista di alberghi, motel, ristoranti e luoghi dove era loro consentito sostare, mangiare, in sostanza vivere, senza essere menati, insultati, cacciati, come invece succedeva spesso altrove.
Il film è sorprendente ed è fatto proprio con amore. Solleva tematiche politiche e sociali, quali la potenza della cultura, la solitudine dei geni, la solidarietà tra anime ed esseri umani anche con formazioni, background, colori e culture diverse, l'integrazione sociale e la dismississione di un inutie e sterile razzismo. Questa la parte seria profonda e utile del film.
Poi c'è tutta una parte divertentissima fatta da dialoghi ironici, colti, divertenti e sani in cui lo stereotipo del "little italy" newyorkese trova ancora più conforto e accoglienza in una proiezione romana, dove le leggere e perfette inflessioni in calabrese stretto di Viggo Mortensen, visibilmente appesantito per entrare meglio nel ruolo di "public relationer ", cioè buttafuori nei night, rendono la "famiggglia" italiana un Must della New York anni 50 e 60.
In realtà la storia è tratta da questo personaggio meraviglioso della New York anni 60, TonyLip Villalonga e la sua vita. Questo uomo che magna quintali di cibo con una voracità unica, spingendosi per vincere una scommessa a 26 hotdogs e, a suo discapito, dice: "mio padre mi ha insegnato quando fai una cosa falla con amore, se mangi mangia fino in fondo", sa conquistare tutti.
Infatti entrò a contatto con grandi nomi e star, rimanendo sempre se stesso, un uomo di umanità e forza bruta, dolcezza e carisma, atteggiamenti medioevali e bruschi, ma con un grande cuore e intelligenza.
Il film, presenatto già a Toronto, è forse il più bello passato finora alla festa del cinema e auguro che vinca il plauso del pubblico, cosa che di sicuro non succederà.
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figliounico
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sabato 25 marzo 2023
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un titolo sbagliato per un film sbagliato
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Per Samuel Maoz la scelta del punto di vista non è soltanto una questione stilistica. Le frequenti inquadrature dell’azione dall’alto implicano lo sforzo di assumere uno sguardo altro da quello comune, forse il desiderio di vedere il mondo con l’occhio di Dio. La digressione filmica nel fumetto introduce un’ulteriore punto di vista, inusuale nella narrazione, quello innocente per definizione del bambino. Peccato che il titolo italiano del film spoileri il soggetto privando lo spettatore del piacere di scoprire lo sviluppo del plot. Peccato che le suggestioni degli sguardi incrociati, dall’alto e dal basso, restino tali e disarticolate non riuscendo a formare una prospettiva unica che ci dia un senso del mondo da condividere.
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Per Samuel Maoz la scelta del punto di vista non è soltanto una questione stilistica. Le frequenti inquadrature dell’azione dall’alto implicano lo sforzo di assumere uno sguardo altro da quello comune, forse il desiderio di vedere il mondo con l’occhio di Dio. La digressione filmica nel fumetto introduce un’ulteriore punto di vista, inusuale nella narrazione, quello innocente per definizione del bambino. Peccato che il titolo italiano del film spoileri il soggetto privando lo spettatore del piacere di scoprire lo sviluppo del plot. Peccato che le suggestioni degli sguardi incrociati, dall’alto e dal basso, restino tali e disarticolate non riuscendo a formare una prospettiva unica che ci dia un senso del mondo da condividere. E’ un dramma familiare che riflette quello di un’intera nazione in guerra dalla sua nascita e che a sua volta nel suo presente riassume la tragedia della shoah ed il terribile destino riservato al popolo ebraico dalla Storia. Tuttavia le ambizioni concettuali e le aspirazioni artistiche dello script non si realizzano nel film, soprattutto per la mancanza di tensione, che si concentra nei primi dieci minuti di girato, partendo dalla scena iniziale in cui i genitori ricevono la notizia della morte del figlio, per poi diluirsi nella lentezza spasmodica del modo di raccontare. La cinepresa si sofferma nella descrizione minuziosa di particolari esterni al dramma sfociando spesso in un estetismo di maniera, ad esempio, nella lunga sequenza in cui si passano lentamente in rassegna tutti gli oggetti disposti su un tavolo nel bunker dell’avamposto israeliano come fossero parte di una natura morta. L’apparizione del cammello, di per sé surreale, si sovraccarica di funzioni simboliche lasciate alla libera interpretazione dello spettatore e risulta anch’essa sganciata, come le anzidette suggestioni prospettiche, da una costruzione unitaria, da una visione interessante della questione che si vuole affrontare. Indubbiamente al fondo del film c’è la questione palestinese. In parole povere, il film è di una noia mortale e questo nonostante l’apprezzabile recitazione degli interpreti, in particolare di Lior Ashkenazi nel ruolo del padre, il protagonista su cui convergono tutte le linee d’azione del dramma, ed il riferimento attuale alla condizione esistenziale dei due popoli in lotta per la medesima terra. Un film che vorrebbe essere tante cose, politico, poetico, surreale, ma non riesce in nessuna di queste.
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noureddine el harti
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mercoledì 31 ottobre 2018
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la vanità della volpe
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Foxtrot - La danza del destino Oppure La vanità della volpe Questo modello di scrittura è diffuso da decine di anni nei paesi in cui la libertà d’espressione è oppressa. Siamo davanti ad una fiction che sembra narrare di gente senza etnie dichiarate, senza tempo, senza spazio. È la lingua parlata che allude ad una comunità ebraica. Il tempo è suggerito dalle generazioni, dalla nonna ai nipoti dei componenti del nucleo famigliare attorno ai quali si tessono gli eventi. il cane, sul quale il maschio alfa scarica periodicamente la sua rabbia, sembra un orientamento geografico nello spazio. Il susseguirsi delle scene è un album di situazioni che chiamano la riflessione: -Il potere dello stato (la grande famiglia) che prevale sul potere del nucleo famigliare.
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Foxtrot - La danza del destino Oppure La vanità della volpe Questo modello di scrittura è diffuso da decine di anni nei paesi in cui la libertà d’espressione è oppressa. Siamo davanti ad una fiction che sembra narrare di gente senza etnie dichiarate, senza tempo, senza spazio. È la lingua parlata che allude ad una comunità ebraica. Il tempo è suggerito dalle generazioni, dalla nonna ai nipoti dei componenti del nucleo famigliare attorno ai quali si tessono gli eventi. il cane, sul quale il maschio alfa scarica periodicamente la sua rabbia, sembra un orientamento geografico nello spazio. Il susseguirsi delle scene è un album di situazioni che chiamano la riflessione: -Il potere dello stato (la grande famiglia) che prevale sul potere del nucleo famigliare. Una specie di diritto di vita e di morte sui figli degli altri (la richiesta d’intervento di qualche generale dell’esercito). -In un istituto lussuoso, in fondo della scena, degli anziani dai passi rigidi ballano mentre in primo piano una donna di mezz’età danza con grazia. (anche per le vittime della seconda guerra… la vita deve continuare) una giovane di colore aspetta accanto ad una colonna dopo aver accompagnato una madre che si confonde tra i suoi figli. (discriminazione raziale anche tra la “stessa” gente) -Le scene con il cammello nel posto di blocco rimandano alla parabola “E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19,24), però mantengano non identificati il ricco in questione e il presunto regno dei cieli. -Lo stato dell’arsenale tecnologico usurato dalla natura può essere interpretato come riferimento al vero esercito nemico. -Il container che affonda nel fango può essere come riferimento al senso del termine “Palestina” detto in altre lingue °falass ten” e che significa “rovina dell’argilla”. -Lo status di ateo affermato all’inizio tra il padre e lo zio poi affermato nel mezzo del film tra i ragazzi del posto di blocco, pone l’interrogazione sulla legittimità di un matrimonio tra l’ideologia di una comunità e la nazione di un popolo: il giudaismo è una religione ma ciò non basta per improvvisare lo Stato del popolo ebreo nemmeno con il pretesto che dio stesso gli abbia dato un nome, Israele o altro. -Il sipario scende sul palcoscenico con le illustrazioni, l’unico patrimonio che il figlio abbia lasciato in cui, tra l’altro, scorre il tatuaggio che perde forma e consistenza man mano che la pelle stessa della nonna subisce altrettanto col passar del tempo. il quaderno sfogliato dalle mani lesionati dei genitori sembra voler riassumere tutta la sofferenza del vissuto dicendo che questa è una cultura senza ricordi. La sua gente, lesionata da terzi o auto lesionata, è smemorata. La sovrabbondante descrizione del dolore subito e la quasi timida espressione del dolore inflitto agli altri tende a fare di questo film un punto di vista per nulla neutrale ma, le denunce lungo la storia, rimediano a quest’handicap.
noureddine el harti
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