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17:10, entro nel cinema e ci trovo una coppia di amici dell'accademia. Mi vedono e mi dicono, senza chiedermi che film sto andando a vedere, "ok, siamo noi tre". E va bene. In effetti in sala siamo al massimo in sette. Normale in un pomeriggio di sole. Davanti a noi una signora bionda, sulla cinquantina. Accanto un paio di uomini, probabilmente gay.
Vedo il film e all'inizio mi dico che questo non è uno dei suoi soliti lavori, questo è fuori dal coro, è qualcosa che io non conosco e che forse non sono ancora in grado di apprezzare. Perchè io Sorrentino lo stimo. Ha un modo di raccontare le cose e di vederle, che sembra le faccia apposta per me, non so se potete capire. Empatia si chiama. E questa volta sento una distanza, chilometrica proprio, un errore, che dilaga come acqua nella prima metà del suo film. Poi invece succede che te ne stai lì, fotogramma dopo fotogramma appiccicato alla tua poltrona di velluto a godere dell'attesa di un qualcosa che sai che prima o poi succederà, finchè non succede. E ti trovi a non avere un taccuino su cui prendere appunti, quando invece vorresti scriverti quella cosa che ti penetra nel petto e ti strappa là dove ce l'hai, il cuore. Nascosto, dietro carne e ossa e aria e detriti. In una frase lui te lo porta via e tu resti senza. E nel mentre compare una giraffa e tu lo sai che nessuna creatura al mondo è più strepitosa di quella, se non uno stormo di fenicotteri rosa, una culla bianca o una suora vecchia di cent'anni che sale una scala infinita e ti mostra la bellezza tra le pieghe del suo viso e il suo silenzioso soffrire. Ed è semplice trovarla dopo aver assaggiato tutta la bruttezza, lo sfacelo, le feste, la cocaina, le ubriacature, le parole, le puttane, la miseria dell'uomo e lo sfacelo delle sue minuscole ambizioni. E' semplice raccoglierla tra i cori angelici e una città sorpresa all'alba, come una vecchia stella del cinema svegliata nel pieno della notte, struccata, in camicia da notte, nel mezzo di un sogno.
Senza storia Sorrentino ha cercato di fare un film sul nulla, come Flaubert, che voleva scrivere di niente senza alla fine riuscirci mai. Anche lui non ci è riuscito ed è caduto nella tentazione stilistica ed egoistica del raccontarsi, facendolo nel suo modo arioso ed inconsistente, pesante ed incombente, come un tumore che ti invade e del quale non ti libererai mai. La bellezza la ricevi pesante come uno schiaffo. Tutta, senza riserve.
E finisci che hai le lacrime che ti sbocciano ai lati degli occhi come rose di maggio e le luci si accendono e tu ti vergogni del tuo bagaglio di sensibilità, anche quando la tua amica te lo fa notare, nel suo accento ungherese, che "tu stai piangendo" e lo fa con un sorriso.
Poi la signora bionda, seduta davanti a te si alza e si gira. "Ed ora tocca a voi trovare la grande bellezza" dice, ma chissà come mai guarda te e continua a farlo mentre scende le scale e si gira due volte, sorridendo. Non sai cosa le ha dato il coraggio di farlo. Sai solo che l'ha fatto e facendolo ha guardato e riguardato te. Come fosse una voce portata da chissà quale vento.
Io so solo che mi è venuta voglia di vivere semplice, di vivere per chi se lo merita, di amare i giusti, uscita da lì. Le ambizioni, tutte, devo averle lasciate là, sotto quella poltrona.
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