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Ridley Scott e l'amore per la Storia. Da Colombo a Napoleone, ecco i suoi personaggi storici più famosi

Monumento del cinema popolare contemporaneo e inventore di grandi miti moderni, il cineasta ha lasciato dietro di sé figure memorabili. Dal 23 novembre torna al cinema con Napoleon.
di Marzia Gandolfi

venerdì 17 novembre 2023 - Focus

Non sarà Francis Ford Coppola o Martin Scorsese ma Ridley Scott, monumento del cinema popolare contemporaneo e inventore di grandi miti moderni, ha lasciato dietro di sé qualche opera memorabile: Blade Runner, Alien, Il gladiatore… E gli storici proveranno un giorno che c’è ancora lui dietro al successo del fratello Tony (Top Gun (guarda la video recensione), Spy Game, Domino), ma questa è un’altra storia. Come Steven Soderbergh, Tony e Ridley adorano i filtri colorati e hanno fiuto per i blockbuster: il primo ama(va) i film “bling bling”, il secondo ha risorse superiori ma mantiene un certo pudore. Al di là di analisi sommarie, se la filmografia di Tony Scott è decisamente eclettica, l’opera di Ridley ha un tema ricorrente: il potere, il suo esercizio, i suoi scacchi, la sua grandezza, la sua decadenza. Una parte non trascurabile dei suoi film racconta di imperi e conquiste.

Una delle scene più belle di Blade Runner evoca la potenza e l’immensità dell’impero che la Terra si è ritagliata nella galassia e le battaglie dantesche che hanno accompagnato la sua marcia. Ma già tre anni prima, in un classico della SF (Alien), lo spazio interstellare era diventato la nuova frontiera per un’umanità capace di prodezze tecnologiche. L’idea di trasporre il nostro sistema economico e sociale su scala galattica verrà illustrata in modo altrettanto straordinario da James Cameron in Aliens – Scontro finale, un sequel con tanto di multinazionali senza scrupoli, marines spaziali e una colonia da difendere da un nemico viscoso e letale. Nel 1992, con 1492 - La conquista del paradiso, Scott offre la sua visione delle prime ore di un impero e della dolorosa presa di coscienza dei suoi ‘conquistatori’ di fronte alla colonizzazione del Nuovo Mondo. Il suo senso dell’epica e la sua capacità di isolare scene intime nel caos della battaglia, fanno del film un’iniziazione convincente ai meccanismi politici dietro alla sete di grandezza. E pazienza i dibattiti teologici caricaturali e l’estetismo eccessivo.  

Senza essere direttamente al comando del suo ‘esercito’, Ridley Scott ha continuato questa esplorazione degli intrighi e delle anime segrete dei protagonisti della Storia producendo la serie The Company, un adattamento piuttosto riuscito del capolavoro letterario di Robert Littell. Ma è a partire dal 2000 che la riflessione sugli imperi diventa predominante nella sua filmografia. Con Il gladiatore, primo peplum digitale ficcato alla fine del regno di Marco Aurelio, l’autore inglese dà prova di un raro virtuosismo nella scena iniziale della battaglia e mostra insieme l’ambiguità di questi signori della guerra, tanto affascinati dalla violenza, quanto avidi di pace. Il personaggio di Marco Aurelio, magistralmente interpretato da Richard Harris, illustra a meraviglia il conquistatore disgustato. Gli ‘storici’ eroi di Scott incarnano tutti il pragmatismo, la sete di grandezza, l’ostinazione ideologica, il candore criminale e soprattutto l’elemento umano, decisivo nelle grandi decisioni.

L’ultimo, in rigoroso ordine di apparizione, è Napoleone, l’officiale divenuto generale, il generale divenuto imperatore, l’imperatore divenuto tiranno. Il regista assolda di nuovo Joaquin Phoenix e promette battaglia e grande spettacolo sullo schermo. Ma il suo Napoleone, possiamo giurarci, non sarà come gli altri, perché il segreto di questo film, che si annuncia per forza monumentale, sarà l’ossessione dell’imperatore francese per la consorte (Vanessa Kirby), sempre in fuga. L’attore sarà al cuore del film senza esserlo. Un’altra maniera per Ridley Scott di sabotare il biopic napoleonico. In occasione dell’uscita di Napoléon, in sala dal 23 novembre, torniamo sui suoi protagonisti, sugli uomini, i navigatori e i cavalieri che fecero l’impresa e la Storia, la sua spettacolare filmografia e gli imperi che si creano e difendono soltanto con la violenza e la sottomissione degli avversari. Che si tratti di ‘ritirare’ un replicante o di eliminare un generale onesto, oppure uno schiavo troppo popolare, di catturare un criminale di guerra o di sacrificare centinaia di soldati per conquistare una città, è sempre una questione di volontà e di forza bruta. La politica non tollera a lungo l’ozio del potere, e a volte bisogna iniziare una guerra per evitarne una più dura, così come qualche volte bisogna saper negoziare. Questa è la storia del debutto di questo secolo, ed è naturalmente quella dei secoli che lo hanno preceduto.
 


In foto Russell Crowe in una scena de Il gladiatore (2000). 

1492 – LA CONQUISTA DEL PARADISO
Respinto da tutte le corti d’Europa e deriso dagli armatori, Cristoforo Colombo ne è convinto, esiste una rotta occidentale per raggiungere le favolose Indie e consegnare più rapidamente le spezie ai gourmet europei. Ma una congiunzione felice guidata da Isabella la Cattolica permetterà all’esploratore genovese di salpare e ‘scoprire’ l’America. E poco importa se l’eroe del giorno pensava di aver raggiunto l’Asia. Cristoforo Colombo scruta l’orizzonte, Rodrigo de Triana urla “Terra” e la nebbia si dissipa rivelando una costa caraibica e una vegetazione lussureggiante. Gli amerindi si approcciano, i marinai si rallegrano, il navigatore ringrazia in silenzio. È il 12 ottobre 1492, un momento decisivo, sublimato da una pletora di racconti coloniali e rappresentazioni agiografiche, prima della sua rimessa in discussione cinque secoli più tardi.

Nonostante gli evidenti squilibri, una prima mezz’ora eccessivamente didascalica sul contesto storico-sociale della Spagna inquisitoriale, 1492 - La conquista del paradiso colpisce per la sua struttura, grandiosa e pessimista al tempo stesso: dall’alba carica di promesse, in cui Colombo contempla l’orizzonte sconosciuto dell’Atlantico, sognando favolose scoperte, al crepuscolo amaro in cui il vecchio Colombo, consumato e dimenticato, guarda malinconicamente quello stesso oceano. Cristoforo Colombo è un ‘bonario’ Gérard Depardieu, un altro eroe storico per l’attore che mette il suo carattere fuori norma a servizio di un personaggio altrettanto leggendario (e discusso). Perché il 12 ottobre 1492, Colombo e il suo equipaggio approdano sull’isola di Guanahani, futuro San Salvador, decisi ad evangelizzare gli indigeni ‘nudi’. Una goccia di inchiostro, nero come il sangue, che si allarga su un foglio bianco diventa in fondo al film una suggestiva metonimia del grande massacro coloniale e un riferimento simmetrico ai titoli di testa, dove le incisioni di Théodore de Bry, incisore belga del XV, rivelano le atrocità spagnole, su sfondo rosso e sulle ‘spaventose’ note di Vangelis.

Lontano dall’essere un autore senz’anima, che approccia i film come un mercenario e come a qualcuno piace ancora pensare, Scott è un regista autenticamente dedicato, un moralista contorto e tormentato che alla maniera di John Milton (“Paradiso perduto”) non può fare a meno di identificarsi appassionatamente coi tormenti di Lucifero, pur piangendo sinceramente il tragico destino di Adamo ed Eva. Nei suoi film la corruzione assume sovente la forma di un antagonista, bello come un angelo, una variante di Lucifero, in questo caso il nobile de Moxica, ‘abitato’ da Michael Wincott. Ma Adrián de Moxica è l’incarnazione, meglio, l’emanazione della coscienza sporca dell’‘eroe’ e del male che lo muove dal principio: la sete di potere e di titoli, il desiderio di imporre il cristianesimo e la civiltà occidentale agli indigeni e il rifiuto di imparare la loro lingua, come gli ricorda la sua guida e interprete Utapan (Bercelio Moya).

IL GLADIATORE
Il gladiatore, storia di un integerrimo generale romano ‘liquidato’ e ritornato sotto la corazza di un gladiatore per vendicare la sua famiglia, sterminata da un imperatore folle, è una pietra miliare nella storia del cinema. Per la prima volta, le immagini di sintesi sono utilizzate ‘al passato’. Il Colosseo, in cui il protagonista e i suoi compagni combattono per la loro vita, è costruito in pixel e mattoni. I 35.000 spettatori sugli spalti non sono che 2.000 comparse moltiplicate dalla magia prodotta dai computer. A completare la dimostrazione interviene poi il destino, Oliver Reed (Proximo nel film) muore durante le riprese e il team di informatici crea una versione digitale dell’attore per girare le scene che restano sul piano di lavoro. Russell Crowe fa del suo personaggio un incrocio tra un supereroe e il conte di Montecristo, rivitalizzando da solo un genere a lungo dimenticato, il peplum.

Se Spartacus resta il gladiatore più celebre della storia (del cinema), la vita di Maximus Decimus Meridius, che l’attore neozelandese incarna con una presenza fisica e una sensibilità sbalorditive, è il pretesto per un grande show, che lascia allo stato embrionale la critica alla società dello spettacolo ma regala una successione di sequenze epiche, a cominciare dalla battaglia inaugurale in una foresta brumosa. Ancora una volta Ridley Scott ci mostra lo schiacciante potere del colonizzatore e la sua scienza in tema di combattimenti armati mozzafiato, perfettamente orchestrati e coreografati. Il finale non sarò meno epico, accomodato in un’arena impressionante per bestialità e bestiario. A colpi di spada, evitando qualsiasi cliché della ricostruzione storica hollywoodiana e mescolando abilmente spettacolo e intimità, Il gladiatore ‘gioca’ col destino di un uomo, che scampa la morte e promette vendetta al suo nemico giurato. Il monolitico e infame Commodo è senza dubbio uno dei più bei cattivi del cinema popolare, grazie soprattutto all’interpretazione complessa e ‘complessata’ di Joaquin Phoenix, imperatore usurpatore, parricida e decadente. Inquietudine fior di pelle, sguardo perennemente umido, labbra frementi, Phoenix convoca tutta la panoplia dell’incompreso di fronte alla forza bruta di Russell Crowe, concentrato di furore sordo, una sorta di tempesta umana, tanto silenziosa quanto temibile.

Carisma allo stato puro, è nata una stella sulla sabbia del Colosseo. E ancora, folle immense, enormi tigri, eserciti in marcia, biondi campi di grano, Ridley Scott dona al suo neo-peplum l’ampiezza di un affresco grandioso sulle note eroiche di Hans Zimmer. Per non parlare dei discorsi solenni, alcune repliche sono ormai da antologia. D’altra parte, il peplum non è un genere confidenziale o gentile, è una forma stordente di intrattenimento, in primo e secondo grado. Che importa il kitsch quando abbiamo la vertigine. Popcorn et circenses.


In foto Orlando Bloom in una scena di Le crociate (2005). 

LE CROCIATE
«Dio lo vuole!», avrebbe detto Papa Urbano II nell’anno 1095 per lanciare l’Europa cristiana alla conquista della Citta Santa. Seguiranno otto crociate spalmate nei secoli dei secoli, amen. Per il suo film Ridley Scott si ispira alla Terza Crociata, furoreggiando tra Oriente e Occidente. Cinque anni dopo Il gladiatore, l’autore riapre i suoi manuali di storia, passando dalla (relativa) pax romana ai tempi (tribolati) delle crociate.

Eludendo qualsiasi interpretazione politica (o quasi), le truppe di occupazione vessate da estremisti religiosi non possono non ricordarci l’attualità, i suoi buoni a questo giro di battaglia sono umanisti ante litteram: Baliano, figlio naturale di un “signore francese”, Baldovino IV, sovrano di Gerusalemme - un re lebbroso che nasconde il suo volto marcescente sotto una maschera d’argento - o Saladino, avversario cavalleresco che resiste alle tentazioni della guerra per il bene del suo popolo. I cattivi sono i Templari e minacciano l’equilibrio di una Gerusalemme multiconfessionale. Gli intrighi di corte regalano poi a Jeremy Irons e Brendan Gleeson accenti quasi shakespeariani. Se l’assedio finale di Gerusalemme è un’ennesima prova di bravura, lo diremmo la madre di tutte le battaglie, alla crociata ‘decrocificata’ di Scott manca questa volta un eroe di levatura. Orlando Bloom, salvato altrove da Troia, non ha frecce al suo arco e lascia Gerusalemme ‘senza colpo ferire’.

EXODUS - DEI E RE
Hollywood rimette mano alla Bibbia, libro dell’Esodo, prima parte, liberamente adattato… Allevato con Ramses II come un fratello, Mosè scopre che il sangue che gli scorre nelle vene non è quello dei faraoni ma quello dei loro schiavi, gli ebrei, che libererà e guiderà verso la Terra Promessa, separando il Mar Rosso come in un film di Cecil B. De Mille (I dieci comandamenti). Lo scopo del peplum di oggi sembra essere quello di citare il peplum di ieri, per mostrare meglio le prodezze visive dell’era digitale. E in questo campo, possiamo fidarci di Ridley Scott, lo spettacolo, ancora una volta, è assicurato. Alternando il gusto del monumentale e del dettaglio, il film affronta le questioni religiose con sospetto, teme soprattutto i folli della fede e insinua l’ipotesi secondo la quale Dio, la Bibbia, le religiose monoteiste, non siano che un delirio, le creazioni mentali di un pastore che ha battuto la testa. I miracoli poi non mancano ma sono spesso contestati da interpretazioni discordanti, uno scienziato che cerca di razionalizzare le dieci piaghe, un testimone che osserva Mosè da lontano parlare da solo quando lui crede di parlare con Dio.  

La grande intelligenza politica di Ridley Scott è fare spettacolo della religione lasciando spazio alla sua critica, in questo senso il film piacerà tanto ai bigotti quanto agli scettici. È l’ora del peplum critico che finisce per annegare in un’oscurità compiaciuta, a immagine della composizione tormentata di Christian Bale, più vicino a un giustiziere miscredente che a un profeta. A guardarlo bene il plot non è troppo lontano da quello de Il gladiatore: un notabile tradito dai suoi pari e ridotto in schiavitù riacquista la sua dignità e il suo potere fino alla disfatta del cattivo.

Se la storia di Mosè è presumibilmente familiare ai lettori monoteisti, atei o panteisti, resta da vedere che cosa aggiunge Exodus – Dei e re alla sua ‘favola’, ovvero al genere che consacra. Niente. Niente al racconto, sacrifica due dei momenti poetici più intensi (l’abbandono del bambino e la condanna all’erranza) a favore di una meccanica semplicistica di vendetta e redenzione. Niente al genere di cui conserva i vizi (la grandiloquenza, il ridicolo, la distorta eredità shakespeariana) e ignora le virtù (l’ingenuità, la fede). Nemmeno gli attori sfuggono alla sua pomposità: Christian Bale interpreta un Mosè solennemente banale, John Turturro un faraone degno di Asterix e Joel Edgerton un Ramses ottuso. Almeno questa volta, Ridley Scott sembra indifferente al mistero che mostra e votato al potere che serve, la Bibbia l’avrebbe quasi certamente chiamata idolatria…

THE LAST DUEL
L’abuso dell’innocenza e dell’innocente è un altro dei temi che riassumono bene la filmografia di Ridley Scott: la persecuzione di Féraud nei confronti d’Hubert (I duellanti), gli assalti dell’equipaggio della Nostromo da parte della creatura aliena (Alien), la corruzione della bella principessa Lili per mano di un oscuro signore (Legend), la manipolazione di Lecter della candida Clarice (Hannibal), la distruzione dell’ingenua Elizabeth ad opera di David (Prometheus). Per non parlare del Nuovo Mondo (o mondo ideale), assediato dalla volontà di potenza e dalla violenza sanguinaria degli uomini, che permea molti dei suoi film, quelli che esplorano il futuro dell’umanità (le colonie spaziali di Blade Runner da cui gli angeli/replicanti sperano di fuggire, solo per ritrovarsi su una Terra ancora peggiore; le spedizioni immorali della Weyland Corporation nella saga di Alien) e quelli che ritornano a un passato remoto (la Roma del Gladiatore, la Gerusalemme di Le crociate, la Terra Promessa di Exodus).

Ma mai come in The Last Duel la sopraffazione si incarna e si fa stupro, senza filtri e senza magia. Scott non dilapida il suo patrimonio ma ne fornisce una versione alternativa e complessa, priva di epica e di incantesimi, come se l’incanto non fosse più possibile e l’immaginazione potesse rinascere soltanto in una forma malata e più materialista, una sorta di cavalleria subalterna e squattrinata infestata dalla parodia (ci sono alcuni cenni vaghi di Kaamelott o dei Monty Python).

Costruito come un caso giuridico contraddittorio, con punti di vista alternati su fatti sempre uguali, il film ruota attorno a uno stupro (concetto che all’epoca dei fatti non esisteva né nel linguaggio né nel diritto), quello di Marguerite de Thibouville da parte del cavaliere Jacques Le Gris, rivale del marito Jean de Carrouges, che sfocia in uno degli ultimi duelli legali della storia (un singolo combattimento, il cui esito varrebbe come verdetto divino). Nessun testimone. Parola contro parola. Un vecchio ritornello. Due cavalieri e una dama in un film storico che denuncia la sorte delle donne nella Francia medievale. Sappiamo dai tempi di Thelma & Louise, che il regista è sensibile alla causa dell’emancipazione femminile. Adattando l’omonimo libro del medievalista americano Eric Jager, Scott si concentra su un altro evento storico: l’ultimo duello autorizzato dal re francese Carlo VI nel 1386 tra due normanni, un cavaliere e uno scudiero, accusato dalla moglie del primo di averla violentata mentre il marito era lontano in guerra. Scott ritorna al debutto del suo cinema, inaugurato nel 1977 con I duellanti, trasposizione del racconto militare di Joseph Conrad e già splendidamente napoleonico. Due ufficiali francesi si batteranno tutta la vita a duello e ai margini dell’epopea napoleonica.

È lo stesso schema di ottusa stupidità che divora The Last Duel, lo stesso assurdo senso dell’onore, la stessa morbosa rivalità virile. Tutta l’empatia del regista va a Marguerite, prima vittima di un ordine patriarcale in cui gli uomini si concedono il privilegio della predazione e del godimento. Qualche scena di combattimento dentro le armature ci ricorda che il Medioevo era prima di tutto un affare di uomini e ferocia. Vale lo stesso per lo scontro finale, epico, brutale e assurdo, in un’altra arena satura di sangue, epilogo di una chanson de geste scritta come tributo alla disobbedienza di una donna violata.  
 


In foto Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023). 

NAPOLEON
Fintanto che avremo dei film, avremo sempre un film su Napoleone. Il primo è del 1897, girato da Louis Lumière due anni dopo l’invenzione del cinematografo, il prossimo sarà quello di Ridley Scott, con Joaquin Phoenix nella pelle e nell’abito dell’imperatore. Innamorato a Sant’Elena, di ritorno per pacificare l’Europa, alle prese con un drago… se il mitico Napoléon di Stanley Kubrick verrà infine adattato in serie da Steven Spielberg e quello restaurato di Abel Gance arriverà in sala nel 2024, altri grandi progetti più o meno folli non hanno mai visto la luce, diventando miti incompiuti o introvabili. Stanley Kubrick, Charlie Chaplin, Patrice Chéreau, Peter Jackson, John Ford (in questo caso l’opera esiste ma è andata perduta), per citare i più celebri, sognarono ciascuno a suo modo di raccontarlo sotto il tricorno ma finirono sconfitti da Napoleone. Débâcle totale, o quasi.

A guardare la mappa del mondo con ‘rapacità’ sarà invece il Napoleone di Ridley Scott, che sperava di presentare una versione lunga del suo biopic sull’imperatore francese con un montaggio di 270 minuti. Invano, in sala, il 23 novembre, uscirà la versione di 2 ore e 38 minuti. Se il trailer promette un film epico con delle impressionanti sequenze di battaglie, l’imperatrice Joséphine, interpretata da Vanessa Kirby, avrà un posto importante nell’economia del racconto. Perché l’idea di Scott è di sviluppare una lettura personale della vita di Napoleone e della sua ascensione attraverso il prisma della sua relazione con la amata consorte. Tutto quello che sappiamo ad oggi lo vediamo nel trailer, dalle immagini della Rivoluzione francese ai paesaggi innevati della Russia, passando per le piramidi egiziane e abbracciando nello stesso lancio epico il percorso tumultuoso di quello che diventerà il primo imperatore dei francesi. Maestro come Scott nell’arte della guerra.


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