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La La Land, un vero fenomeno

Il film di Damien Chazelle è un film degli Anni Cinquanta. È come se pubblico e critica non vedessero l'ora di respirare un po' d'aria pura. Al cinema.
di Pino Farinotti

La La Land

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lunedì 6 febbraio 2017 - Focus

La La land, di cui ho già scritto, si sta rivelando un vero fenomeno. Per cominciare l'accoglienza: tutte le testate e tutte le firme più importanti della critica gli hanno attribuito le cinque stelle, il voto del capolavoro. Anch'io l'ho definito tale. Ragionandoci in prospettiva emerge un dato, non proprio positivo rispetto al cinema contemporaneo. Il film di Damien Chazelle è, di fatto, un film degli Anni Cinquanta. È come se pubblico e critica non vedessero l'ora di... respirare un po' d'aria pura. La mia posizione, in quel senso, credo sia nota, raccontata più volte. "Passatista" è quasi sempre un aggettivo negativo. E, ribadisco, è triste doversi rifare al passato. Ma in questo caso il dato e il sentimento sono condivisi. Quel cinema - parlo di America, ma il concetto può essere allargato - era migliore di questo, e non solo.
Nel mio libro "Storia 'poconormale' del cinema" ho scritto: "I Cinquanta sono un decennio fondamentale del cinema. Evoluzione dei contenuti e della tecnica, "assestamento" dei generi. Hollywood diventa sempre più leader, guida del cinema, per spettacolo, qualità e mercato. Niente di assoluto naturalmente, ci sono altri paesi e altre correnti, ma il cinema americano, figlio del dopoguerra, diventa un fenomeno che propaga nel mondo caratteri ed esempi di sentimento, di estetica e di marketing. Quel decennio è davvero l'età dell'oro del cinema."

La La land, qualche momento: lei vuole fare l'attrice, lui suonare il piano secondo la propria cultura. Hanno talento. Provano e riprovano, alla fine ce la fanno. Quante volte i film hanno raccontato questa vicenda? Le loro mani si toccano in un cinema - e dove altrimenti - al buio. Poi si baciano. E tutto si ferma lì. Niente nudo e niente letto.
Pino Farinotti

Lei è con amici banali, a una cena, ma ecco il raptus, scappa e va da lui. Certo cliché, ma belli. Le citazioni le lascio ai cinefili, il ballo: Astaire-Rogers e Gene Kelly. Gli scenari da Cantando sotto la pioggia a Un americano a Parigi. Con l'immancabile sequenza sulla Senna. Tutti "Anni Cinquanta" dunque. Chazelle rinuncia persino all'immancabile momento omosessuale obbligatorio e strategico in tutti i film di adesso.


Ryan Gosling in una scena del film.
Emma Stone in una scena del film.
Ryan Gosling e Emma Stone in una scena del film.

Di tutto questo c'è una ragione più profonda. L'America, soprattutto New York. In quei Cinquanta la città era il centro principale di qualsiasi attività creativa. Rivoluzioni nel jazz, nella pittura, nella musica pop. La poesia si faceva nei night, nella case private. Prendeva vita l'editoria di qualità. Girando vedevi scenari nuovi e felici di architettura moderna, moda e arti decorative procedevano in sintonia. Broadway rappresentava musical popolari e travolgenti e lavori di qualità alta di autori come Williams, Miller e Inge. E poi la televisione, che proponeva storie in diretta, drammi e varietà, e altri esperimenti che da noi sarebbero arrivati... il decennio dopo. La borghesia era in continua ascesa. Se pensi a un centro del mondo, ebbene New York in quegli anni poteva esserlo benissimo. Naturalmente il cinema.

Vado a campioni: gli Anni Cinquanta sono l'epoca dell'Hitchcock americano, il migliore, con titoli come La finestra sul cortile, Intrigo internazionale e La donna che visse due volte, considerato dalla testata Sight&Sound, che farebbe testo, il titolo assoluto del cinema di tutti i tempi.
Pino Farinotti

I western di Ford (Sentieri selvaggi), Hawks (Un dollaro d'onore), Stevens (Il cavaliere della valle solitaria), Mann (Là dove scende il fiume), capolavori perfetti oltre il genere. I musical della Metro, i titoli citati sopra, che divennero "arte americana" non solo spettacolo. E poi "quelli dell'Actor's Studio", che cambiarono il cinema: gente come Kazan, Ray, Wise registi, Brando, Newman, Dean e Clift, attori. Fra gli altri.
In quella stagione Hollywood "filma" romanzi dei più importanti scrittori americani, da James a Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck, Faulkner, Melville, Defoe, Twain, spesso mantenendone le identità, a volte concedendosi una legittima licenza da cinema: trasformare il finale drammatico in happy end. Intendo fissare un momento esemplare: le nomination all'Oscar del 1954. Erano: Giulio Cesare, dunque Shakespeare, con Brando nella parte di Antonio che fece storia; Da qui all'eternità, con divi come Lancaster, Sinatra e Kerr, diretto da Zinneman, tedesco, dunque due culture prevalenti in collaborazione; Vacanze romane, grande classico della commedia, che definì il mito di Audrey Hepburn, premio Oscar; La tunica, il primo cinemascope, spettacolare, concepito per contrastare il piccolo schermo. Il cavaliere della valle solitaria, con Alan Ladd che fa Shane, modello di eroe puro, altro mito.


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