Melancholia

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Un film di Lars von Trier. Con Charlotte Gainsbourg, Charlotte Rampling, Stellan Skarsgård, Alexander Skarsgård.
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Fantascienza, Ratings: Kids+16, durata 130 min. - Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011. - Bim Distribuzione uscita venerdì 21 ottobre 2011. MYMONETRO Melancholia * * * 1/2 - valutazione media: 3,54 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Nordicità, depressione, il "marcio" di Danimarca Valutazione 3 stelle su cinque

di Alfio Squillaci


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domenica 19 settembre 2021

 "Melancholia" di Lars von Trier 

 
Visto con notevole ritardo il film, che è del 2011, "Melancholia" di Lars von Trier. Il caso ha voluto che proprio questa estate abbia anche visto "L'ultimo giro" di Thomas Vinterberg  che  insieme a Trier è il fondatore del movimento "Dogma 95" il cui  manifesto molto perentorio  intende rifondare con piglio militaresco - le avanguardie artistiche sono milizie estetiche per definizione ammettono gli stessi estensori - se non una nuova, una propria e singolare cinematografia, in cui si impegnano a "mettere un'uniforme ai nostri film". 
 
Ora, stare a sindacare sulle intenzioni programmatiche di un manifesto di poetica filmica confrontando intenzioni a risultati che a causa di un ebbro quanto comprensibile narcisismo eccita oltre misura chiunque  intraprenda una via artistica, che sarà per definizione "nuova" (altrimenti perché sentire il bisogno di fondare un movimento?), ma è esercio critico ozioso da cui vorrei astenermi, perché si sa che "habent sua fata verba". E tuttavia qualche osservazione critica da discolaccio la farò.
 
Stiamo ai fatti. I nostri di "Dogma 95" sono artisti danesi e se è vero che non si è danesi - come italiani o spagnoli o inglesi - per sbaglio (Paul Valéry diceva che si è francesi così come si respira), occorre dire che sia Trier che Vinterberg  si fanno carico lodevolmente di un po' di "marcio in Danimarca". Se Vinterberg affronta in "Ultimo giro" il tema o problema dell'alcolismo qui von Trier (che non è nobile ma ha aggiunto la particella nobiliare per simpatico sberleffo) assume  un altro tratto dell'antropologia danese, quello della amletica depressione (la Danimarca è  seconda a livello globale nel consumo di antidepressivi).
 
Il film si apre con una lunghissima ouverture - ben otto minuti - di immagini en ralenti - la lentezza spaccaossa è  la dominante di questo film - immagini prelevate dal corpo della pellicola che vedremo, ma anche di giganteschi dischi di pianeti che si sovrappongono nel gioco regolare delle orbite fino a che uno, di cui ignoriamo il nome, si scontra con il pianeta che sembra proprio la Terra. Il tutto accompagnato anche da immagini invernali nordiche di Bruegel il vecchio, e soprattutto da una colonna sonora di grande potenza suasiva e incantatrice. Ma attenzione non è  un commento musicale di ordinanza, si tratta nientemeno che del Preludio di "Tristano e Isotta" di Richard Wagner. Mica cotiche.
 
Da canaglia quale sono annoto che già due dei comandamenti del decalogo di "Dogma 95" sono clamorosamente infranti:  il quinto:  "lavori ottici non sono permessi", cfr invece qui il gioco dei pianeti;  ma soprattutto il secondo: "La musica non deve essere usata a meno che non sia presente quando il film viene girato". Che non si capisce bene cosa voglia dire, fatto che non mi impedisce di osservare tuttavia  che qui la musica invece, e che musica!, è giustapposta alla trama filmica e ne indirizza il "tono"; filtra da tutti gli angoli più bui, che sono tanti, della messa in scena, e sembra, così eccessiva nella sua tragica tracimazione nei momenti clou, da mostrare la funzione occulta di vero e proprio steroide anabolizzante inoculato nel film al fine di espandere  oltre ogni misura la volumetria  di Gravità, Nordicità, Angoscia/Depressione, Smarrimento, Tensione al Sublime, Tragicità, tutti obiettivi estetici latenti o suggeriti scopertamente dalla intenzione di regia.  (Ed è come se nella sua platealità di suggerimento proposto e imposto  qualche regista  italiano, tutte le proporzioni viste, volendo fare un film solare e mediterraneo e dare una idea della nostra vecchia gaiezza italica, accompagnasse gli snodi della vicenda  con le voluttuose e scintillanti ouverture o cavatine di Rossini).  
 
Il film si divide in due parti intitolate ai nomi delle due sorelle protagoniste: Justine e Claire. Nella prima è narrato lo sposalizio di Justine. Bella, bionda, burrosa  e apparentemente felice giovane donna. Nulla delle prime scene lascia trasparire il suo stato di malessere psichico. V'è narrato l'incidente della limousine nuziale troppo lunga per girare nelle stradine di campagna,  fatto che  determina un ritardo di ben due ore nella cerimonia del ricevimento nuziale, ma il tutto è narrato in un tono  gioioso di festa. Justine invece, ce lo suggerisce la musica saturante di  Wagner, è depressa, melanconica. Ma il suo malessere non è drammaturgicamente narrato in forma diretta giustamente:  come la musica di Wagner, insistente e pervasiva,  è nell'aria, alluso per fatti  concludenti. Sarà quel maritino così bello e scialbo? Sarà il suo tronfio datore di lavoro che la promuove al momento  del brindisi da copywriter ad art-director  e che le mette alle costole un tipo appena assunto allo scopo di strapparle lo "slogan" della prossima campagna pubblicitaria? (Una piccola slabbratura narrativa questa). Sarà quel papà così evanescente e svanito? Sarà quella madre così arcigna nel suo  anticonformismo ribelle che non crede nelle cerimonie e nei codici borghesi pur facendone parte? Pare, a tal proposito, che Trier sia nato in una famiglia nudista&comunista&atea e che abbia patito così tanto quella libertà senza regole che si volge fatalmente nel diktat pari e contrario di una educazione repressiva, da cercare per contrappasso un ferreo collegio alla "giovane Törless" per contrastare con la disciplina (quella che invocherà nel suo "Dogma 95" con annessi voti di castità estetici) proprio quell'eccesso di libertà. Diomio, com'è prevedibile la vita nelle sue sorprese! Fatto sta che è in questa drammaturgia da  "romanzo familiare" psicoanalitico senza scomodare Marthe Robert o Freud che va ricercata l'eziopatogenesi del disagio  psichico di Justine, e di converso i suoi atti inconsulti, quali quello di sfanculare il datore di lavoro pubblicamente; assentarsi dal ricevimento per orinare nel prato sotto la campana dell'abito da sposa; negarsi sessualmente al marito, ma possedere, accovacciata di sopra, il tipo in cerca  dello slogan; prendere abbondanti bagni caldi, ecc. In questa prima parte, fedele al suo manifesto estetico che si riprometteva l'uso esclusivo della telecamera a mano Trier si lancia nel virtuosismo di spostare velocemente, ma vistosamente, da un volto all'altro dei dialoganti la handycam, ed è forse il suo punto programmatico (il 3 "La macchina da presa deve essere portata a mano") più rispettato, anche se non sempre, perché gli stacchi di immagine tradizionali persistono nella cucitura delle scene. 
Che dire? Sembra un tema ben svolto. Nulla da eccepire se non qualche sbavatura (quella dello "slogan" miracoloso).
 
Nella seconda parte intitolata a Claire vediamo Justine in abiti dimessi e totalmente in disfatta psichica rifugiarsi a casa della sorella Claire, che visti i due genitori sbagliati, in tutto il film ha svolto il ruolo di soccorrevole e affettuoso sostegno della sorella malata. Tutta questa seconda parte è  diluita e lenta, e perciò campi lunghi, cavalcate seguite con metodico stillicidio, nessuno scalpiccio degli zoccoli riassunto o risparmiato: sembriamo in un film da école du regard, quando la telecamera indugia sui volti,  sugli angoli bui del giardino, evitando accuratamente le ellissi narrative e tendente a suggerire Sospensione del Tempo e Sintomatico Mistero, plateali effetti imposti, appiccicati dalla regia. Qui, finito il racconto tutto sommato realistico o wysiwyg (Wat You See Is Wat You Get) della prima parte, convincente e riuscito, si compie  la sbobinatura simbolica del film nel suo complesso - la partita a quattro tra le due sorelle, il marito di Claire e il figlioletto di costei della seconda parte -, ovvero quanto preannunciato negli otto minuti di ouverture musicata da Wagner: l'attesa del pianeta Melancholia gravitante sulla Terra. La distruggerà? 
Siamo nel flou, nello schizzo allegorico molto sdato come chiusura della curva narrativa. I finali sono tutti deboli avvertiva Forster? Ce ne sono "più" deboli, evidentemente. 
La mia osservazione finale è che von Trier tenti un grande salto con l'asta in direzione del Sublime, dell'Inespresso, del Tragico, in cui l'io deflagrato si porta con sé questo Atomo opaco del Male che èil mondo visto da un depresso,  avvalendosi di molti effetti intenzionali e imposti, ma che resti sospeso con la lunga pertica nell'aria delle buone intenzioni. Il tutto, specie nella seconda parte - il disfacimento della prima, sa di forzatura e artificio, di buoni propositi ma di rendimenti non rispondenti alle premesse e alle promesse. E con l'aggiunta di una lentezza di sbobinatura finale tanto suggestiva quanto tendente al vuoto più annichilente.

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