Kubrick inscena superbamente una pellicola basata su una ben definita riflessione filosofica, ovvero quella dedicata al problema esistenziale dell'uomo, senza però lasciarsi sfuggire la trattazione di svariati temi importanti e -specialmente oggigiorno- interessanti, ossia quello dell'intelligenza artificiale, della tecnologia come strumento per ricongiungersi alla verità e soprattutto (almeno è ciò che, personalmente ho notato maggiormente) del comportamento omogeneo di qualsiasi essere vivente nei confronti di ciò che non conosciamo.
E' proprio tale problema che viene trattato durante la prima parte del film, all'alba dell'essere umano, quando ancora le scimmie popolavano la terra; come l'uomo schiavi delle proprie esigenze primarie, lottano per la loro sopravvivenza, si contendono il cibo ed arrivati ad un certo punto sentono quel primordiale bisogno di dominare (scena in cui una scimmia afferra e brandisce una clava). E' questo significato la chiave per ricondurci al desiderio della scimmia, ovvero dell'uomo, di conoscere la verità: cosa che ha un limite, perché sappiamo che non a tutto c'è sempre una risposta. E questo lo spiega l'apparsa del misterioso monolite, simbolo dell'ignoto che molto spesso ci affligge, probabilmente persino di astrazione divina (possiamo notare ciò dalla perfezione peculiare di cui la lastra è provvista). Le scimmie, da esseri mortali, gironzolano attorno al corpo estraneo, cercano di conoscerlo attraverso l'utilizzo dei sensi (toccandolo, odorandolo) ma non riescono a svelarne l'effettiva essenza.
Nella seconda parte della pellicola possiamo benissimo accorgerci del comportamento praticamente congruente che hanno gli uomini moderni, curati e contenuti, rispetto alle scimmie nei confronti del monolite, ritrovato nel 1999 sotto il suolo della Luna da una compagnia di astronauti. Questo spiega come l'uomo, per quanto avanzato e tendente sempre di più alla modernizzazione, di fronte a ciò che non conosce e non può conoscere ritorni al suo stadio primordiale.
Nella terza parte dell'Odissea kubrickiana si ha la missione Giove, nel 2001: trattasi il tema dell'ibernazione, attualissimo ancora oggi, oltre che quello dell'intelligenza artificiale che, molto originalmente, pare sia così avanzata da sfociare in una situazione di sensibilità quasi umana. La tecnologia stessa si ritrova in una condizione di conflitto interiore: giurato in precedenza di non rivelare agli astronauti il vero scopo del viaggio, la mente artificiale deve dirigere il controllo dell'intera astronave oltre che tener conto di ciò che dicono gli astronauti al suo interno. Quando questi ultimi arrivano a mettere in dubbio la sua funzionalità, il cervello artificiale si ribella sentendosi in grado di dirigere da solo l'astronave ed occuparsi della missione e volendosi liberare di tutti gli umani che vi abitano, ma uno di questi riesce comunque a disattivarlo: qui colpisce la tecnologia antropomorfizzata, la paura che anche questa nutre nei confronti dell'ignoto. Lo stesso astronauta arriverà, tramite un video, a scoprire il vero scopo del viaggio: ovvero quello di ritrovare il monolite che, due anni prima, era stato ritrovato sotto il suolo della Luna. Fantastiche fino a qui le danze delle astronavi nell'universo, che paiono girare attorno senza un'effettiva meta alla ricerca di una risposta.
Nella quarta ed ultima parte del film si raggiunge Giove, immensa ed indecifrabile, non alla portata dell'uomo, la terra del monolite, la terra di Dio, di Zeus figuratamente: l'uomo sopravvissuto nell'astronave si perde nell'infinito che il pianeta trasfigura, vicina può essere l'interpretazione di una crisi esistenziale, oppure della volontà di afferrare un qualcosa che purtroppo è inafferabile. Le immagini che si susseguono sembrano quasi dipinti impressionistici, e questo in parte è stato rivelato dallo stesso Kubrick, che afferma di aver voluto creare un'esperienza visiva, « che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio. » quasi come un'impressione che lo stesso regista ha dell'infinito, dell'ignoto e di tutto ciò che non è conoscibile.
Trattasi anche del sublime, che pare sbordare dallo schermo tanto che è potente ed incontenibile, specie nelle sequenze dedicate alle tempeste e ai "mari" su Giove.
E la scena finale, come nei grandi capolavori, lascia ulteriormente gli spettatori in prossimità di un incrocio, in cui ognuno può seguire una propria interpretazione.
Il personaggio sopravvissuto al viaggio è trasfigurato in una stanza in stile imperiale, dove si lascia e "si vede" invecchiare: da notare è la scena in cui si guarda allo specchio, in un'ulteriore analisi di introspezione, chiedendosi con gli occhi chi e cosa effettivamente sia rapportato al grande universo che -con gli stessi occhi- ha contemplato.
In procinto di morire, si rivede davanti il monolite: tende verso di lui, non lo tocca ma in un certo qual modo lo raggiunge: intanto il vecchio si trasforma in un feto, che, nella scena finale, tende gli occhi verso il mondo che lo attende: la Terra, immensa ma così piccola da essere a grandezza d'uomo.
Fantastici gli effetti speciali, che infatti si sono avvalsi di un Oscar, giusta la sceneggiatura, inarrivabile la regia. Grandiosa è la fotografia, che fa di questo film una pellicola grandiosamente futuristica, veramente attuale; non sembra un film del '68 ma quasi dei giorni nostri. Un lavoro a dir poco eccellente, che in due ore rappresenta tempi e spazi dilatati all'infinito.
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