Un uomo tenta di riportare a casa il figlio del suo capo allontanato da casa. Espandi ▽
Il titolo,
Cry Macho, suona come un ossimoro. "Macho" esprime la natura esagerata e aggressiva della mascolinità, "cry" un versamento di emozioni 'inconciliabile' col machismo. L'uomo virile non piange, mai, o così almeno ci hanno fatto credere. Gli uomini di Eastwood, invece, si nascondono per piangere. Dietro le spalle alle volte, sotto al cappello questa volta.
Novantuno anni e sessantuno di cinema, Clint Eastwood non ha ancora finito con la (sua) virilità o forse sì. Perché a guardarlo bene
Cry Macho non è un'opera introspettiva. Certo, in sostanza Eastwood 'commenta' il suo personaggio cinematografico ma sono brevi passaggi, serve accontentarsi e rivedere
Gli spietati per trovare soddisfazione e un crepuscolare esame di coscienza in forma di bilancio. Clint Eastwood ha novantuno anni e più niente da dimostrare. Quello che davvero conta per il regista e per i suoi vecchi spettatori è il secondo film, quello in filigrana. Il soggetto non è più la ricerca del figlio ma è Eastwood stesso. La sua aura trascende tutto, la sua carriera, come la silhouette filiforme, si imprimono direttamente sull'immagine. Modellato secondo il suo stile, il suo ritmo e i suoi (tanti) anni, Cry Macho è un western a velocità ridotta. Un avanzare flemmatico che argomenta a favore della gentilezza e della probità mentre calcola (letteralmente) le pause per la siesta. Perché il suo protagonista ha troppe primavere e nessuna cura per la vecchiaia, che si vive e basta.