Regista e sceneggiatore francese, noto per la sua capacità di raccontare figure femminili complesse e tormentate, spesso al centro di narrazioni che oscillano tra il biografico e il melodrammatico, Olivier Dahan ha una regia che lo distingue dagli altri autori francesi per un forte senso visivo, ma soprattutto per la sua predilezione per atmosfere cupe, scenografie evocative e una fotografia che tende a sottolineare il contrasto tra fragilità e forza interiore.
Esploratore dei confini tra realtà e finzione, tra storia documentata e interpretazione artistica, è uno di quei registi che si dedica a ritratti biografici che non sempre cercano la verità storica, ma piuttosto una verità emotiva e simbolica.
Stile registico
Il suo stile alterna momenti di intensa introspezione a sequenze più teatrali e spettacolari, spesso accompagnate da una colonna sonora drammatica e da un montaggio serrato. È un cineasta che non teme l'eccesso, ma sa anche dosare la misura quando serve, cercando sempre di fornire profondità alle sue protagoniste, anche quando la sceneggiatura si concede fin troppe licenze narrative.
La sua attenzione al dettaglio visivo e alla costruzione dell'identità del personaggio storico lo rende un autore riconoscibile, capace di fondere il linguaggio del cinema popolare con ambizioni più autoriali. Pur non privo di critiche, soprattutto quando il tono si fa troppo reverenziale o la narrazione si appesantisce, Olivier Dahan rimane una figura significativa nel panorama cinematografico europeo, con una sensibilità che privilegia il ritratto umano e la tensione tra destino e scelta.
Infanzia e studi
Nato a La Ciotat nel 1967, da due impiegati delle poste, cresce nella sua città fino al trasferimento a vent'anni, nel 1987, all'École d'art di Marsiglia, dove si diploma nel 1991 in Arti visive.
Gli inizi tra corti e videoclip
Il suo debutto dietro la macchina da presa comincia a partire da sette cortometraggi artistici girati tra il 1988 e il 1997, anche se saranno i videoclip musicali la sua vera fortuna. Zucchero Fornaciari lo vorrà infatti come regista del suo video musicale "Così celeste" nel 1995, imponendolo anche alla regia di "Eppure non t'amo" (1996). Ma dirigerà anche i Cranberries ("Salvation", "Animal instinct", "Promises"), Eagle-Eye Cherry ("Falling in love", 1998), Francis Cabrel, MC Solaar, France Gall, Raphaël e Mylène Farmer.
L'esordio al cinema
Dopo un buon numero di esposizioni artistiche, grazie alle quali si imporrà ai critici di quel settore, passerà al grande schermo con il suo primo lungometraggio, Déjà mort (1998), un dramma cupo e provocatorio che esplora il lato oscuro dell'ambizione giovanile e del desiderio di successo. Una riflessione cruda sull'illusione del successo e sulla fragilità dei giovani di fronte alla seduzione del potere e della libertà apparente (una ragazza di provincia viene introdotta da due giovani ricchi nel mondo delle foto erotiche, salvo poi venire risucchiata in un vortice di denaro facile, sesso e droga).
Fiabe, drammi e thriller
Non meno tenebrosa la sua versione dell'omonima fiaba di Charles Perrault Pollicino, diretta nel 2001 e da lui stesso scritta, dove indubbiamente si distingue per un'estetica potente e visionaria (scenografie e costumi dai toni accesi che evocano la pittura di Delacroix, gli effetti speciali volutamente grezzi e ambientazione interamente in studio creano un'atmosfera claustrofobica e onirica).
Dahan, qui, riesce a conservare il nucleo emotivo del racconto fiabesco, infondendo coraggio dopo aver evocato paura, ma lo fa con immagini disturbanti e simboliche (fiori dal profumo sinistro, figure femminili spettrali, creature deformi), che richiamano più l'horror gotico di Mario Bava che il mondo rassicurante delle fiabe edulcorate.
Sebbene il finale sia positivo, la tensione costante e l'ambiguità tra favola e incubo rendono il film difficile da collocare, troppo inquietante per i bambini e troppo fantastico per gli amanti del genere horror, lasciando aperta la domanda su quale pubblico potesse davvero accoglierlo.
L'anno seguente, dirige Isabelle Huppert in Silvia oltre il fiume, tornando a un dramma intenso e delicato che racconta la storia di una donna che lavora come prostituta e che vive una vita ai margini. La sua esistenza prende una svolta improvvisa quando la figlia quattordicenne Laurence, con la quale ha un rapporto difficile, la raggiunge e, per difenderla da un'aggressione, accoltella il protettore materno.
Il film, da qui in poi, si sviluppa come un road movie esistenziale, dove il legame tra madre e figlia si evolve tra tensioni, silenzi e momenti di tenerezza.
L'accoglienza critica è stata mista, per via di una narrazione troppo lenta e poco coinvolgente, con una sceneggiatura che, seppur sincera, tende a scivolare verso un erotismo patinato e una drammaturgia convenzionale. Inoltre, la regia di Dahan si fa più sobria e non riesce sempre a evitare una certa rigidità espressiva, che sospende il film, ricco di potenziale emotivo, tra introspezione e manierismo.
Sarà però in virtù del suo Pollicino dark che, nel 2004, sarà scelto come regista del thriller I fiumi di porpora 2 - Gli angeli dell'Apocalisse, sequel di I fiumi di porpora (2000), scritto da Luc Besson e tratto dal romanzo di Jean-Christophe Grangé.
Riprendendo il personaggio dell'ispettore Pierre Niémans, interpretato da Jean Reno, affiancato dal giovane capitano Reda (Benoît Magimel), si segue un'indagine su una setta di monaci, gli Angeli dell'Apocalisse, responsabili di una serie di delitti rituali nella regione della Lorena, tra monasteri inquietanti e cunicoli della linea Maginot.
Il film si distacca dal primo episodio per tono e struttura. Se, difatti, il precedente poggiava su un solido impianto letterario, questo secondo capitolo si presenta come un prodotto più spettacolare e caotico e con una narrazione che mescola misticismo, simbolismo religioso e azione poliziesca.
Dahan, al suo debutto nel genere, imprime al film l'estetica cupa e barocca cui ci ha abituato (anche qui scenografie oppressive e colori plumbei), che fa sposare con una regia frenetica, che alterna movimenti di macchina ridondanti a effetti visivi roboanti. Purtroppo, la tensione, anziché intensificarsi, si disperde in un eccesso di stimoli, e i personaggi risultano schiacciati da una messa in scena sovraccarica.
Nonostante le critiche alla sceneggiatura, giudicata confusa e piena di dialoghi poco ispirati, il film ha ottenuto un grande successo commerciale in Francia (persino superiore al primo), per la sua vena ironica e il gusto per l'eccesso, i suoi toni più audaci e meno hollywoodiani, che hanno fuso religione, esoterismo e thriller in un racconto visivamente travolgente.
Il César per il miglior film
Nel 2007, cambierà totalmente registro e, dopo anni di scrittura, firmerà il biopic La Vie en rose, che ripercorre la vita intensa e travagliata della leggendaria cantante Edith Piaf, dalla nascita in condizioni estreme fino ai trionfi internazionali, passando per l'amore appassionato con il pugile Marcel Cerdan e la sua prematura scomparsa.
Il film, presentato con successo al Festival di Berlino, è stato accolto con entusiasmo e commozione, rappresentando un raro esempio di cinema popolare ben confezionato, ricco di ambientazioni, personaggi e pathos.
Sarà il suo capolavoro. Dahan costruisce un ritratto generoso e vibrante, evitando sia gli eccessi stilistici che le semplificazioni retoriche tipiche di molti film biografici, tuttavia senza uscire incolume da critiche che contestavano la struttura narrativa frammentata e ridondante e il finale dilatato e ripetitivo, che alternava immagini del declino fisico della cantante a quelle dell'infanzia dolorosa (che era in realtà un tentativo di rendere la visione più accessibile a chi già conosce la sua storia). Pur girata con ampi mezzi e ambizioni artistiche, la pellicola è stata definita come un collage biografico affascinante ma non sempre equilibrato, dove il regista privilegia le estasi e le sofferenze dell'artista. Eppure, questo basta per fagli arrivare il Premio César per il miglior film e una candidatura come miglior regista.
Il tentativo americano
Dopo i fasti di questa pellicola, viene chiamato in America per dirigere Renée Zellweger, Forest Whitaker, Madeline Zima e Nick Nolte in My Own Love Song (2008), che segue una ex cantante, costretta su una sedia a rotelle, e un suo amico, in un viaggio attraverso gli Stati Uniti per affrontare il passato e riscoprire la speranza.
Il film ha ricevuto un'accoglienza tendenzialmente negativa da parte della critica, soprattutto se confrontato con il suo successo precedente. Fu l'ennesimo debole tentativo del noto meccanismo hollywoodiano che vede gli Studios usare registi europei di improvviso successo in patria, per affidare loro zoppicanti script che nessun regista statunitense girerebbe (ne sono esempi Mathieu Kassovitz con Babylon A.D., Florian Henckel von Donnersmarck con The Tourist e Gabriele Muccino con Quello che so sull'amore).
Il ritorno in Francia
Tornato in patria, nel 2012, scrive in collaborazione con Marc e Philippe de Chauveron e Isaac Sharry Dream Team (2012), una commedia sportiva che racconta la parabola di un ex campione di calcio caduto in disgrazia (disoccupato, dipendente dall'alcol e privato della possibilità di vedere la figlia), che viene obbligato da un giudice a trovare un impiego stabile (nella fattispecie accetterà di allenare una squadra dilettantistica composta da pescatori locali su una piccola isola bretone).
Nel solco delle commedie di riscatto collettivo, con una narrazione prevedibile ma efficace, che alterna gag calcistiche, dinamiche da compagnia teatrale e un tono leggero e ottimista, Dahan si cimenta qui con un registro più spensierato, riuscendo a orchestrare un cast di attori molto amati in Francia (Omar Sy, José Garcia e Jean-Pierre Marielle) in un'idea non originale, che riesce comunque a divertire e a toccare corde sociali. Il successo al botteghino francese sottolinea la sua improvvisa capacità di coniugare umorismo, sentimento e denuncia sociale in un prodotto accessibile e coinvolgente.
Il flop Grace di Monaco
Purtroppo, non andrà così per il suo secondo biopic, il pessimo Grace di Monaco (2014), interpretato da Nicole Kidman nei panni di Grace Kelly, affiancata da Frank Langella, Milo Ventimiglia, Paz Vega e Tim Roth.
Scritto da Arash Amel, è un film biografico romanzato che racconta un anno cruciale nella vita dell'attrice hollywoodiana diventata principessa del Principato di Monaco. Ambientato nel 1962, il film segue la protagonista nel momento in cui riceve da Alfred Hitchcock l'offerta di tornare sul grande schermo con Marnie, ma deve scegliere tra la sua vocazione artistica e il dovere istituzionale. Sullo sfondo, una crisi diplomatica tra Francia e Monaco, con Charles De Gaulle che minaccia l'autonomia fiscale del piccolo Stato e una trama interna di palazzo, che coinvolge la cognata Antoinette, accusata di voler spodestare il principe Ranieri, il titolo, presentato fuori concorso al Festival di Cannes, si sviluppa secondo i canoni più consolidati del genere, ma non riesce a trovare una sintesi convincente tra verità storica e finzione drammatica e, soprattutto, non è La Vie en rose e non ha niente a che fare con quella perfezione che poteva diventare stile narrativo innovatore e vera impronta registica.
Dahan tenta, infatti, di costruire un ritratto emotivo e visivamente elegante, ma la narrazione risulta appesantita da una regia improvvisamente accademica e da una sceneggiatura che privilegia colpi di scena e intrighi dinastici a scapito della profondità psicologica. Nicole Kidman, al centro di insistiti primi piani, non restituisce nulla e il resto del cast è diretto e recita in maniera poco credibile.
Nonostante scenografie sontuose, costumi raffinati e un'estetica che richiama il glamour vintage, il film è stato criticato per la sua impostazione agiografica e per le libertà narrative che hanno suscitato la disapprovazione della famiglia Grimaldi. Un flop che non è né cinema d'autore, né prodotto commerciale, ma solo superficialità impacchettata sontuosamente.
Altri film
Quasi tornato alle origini, dirigerà lo sperimentale A folk horror tale (2021), concepito in collaborazione con John Galliano, direttore creativo di Maison Margiela, per presentare la collezione Artisanal 2021 del brand, e lo stesso anno ritornerà imperterrito al biopic con Simone Veil - La donna del secolo (2021), incentrato su Simone Veil, figura cardine del Novecento francese ed europeo per le sue battaglie politiche. Un ritratto intimo ed epico su un'umanista ancora attuale, che ha ricevuto buoni consensi da parte della critica francese, anche per un certo ritorno di Dahan al modo di presentare le sue protagoniste con una frammentazione temporale di grande fascino.