“Vi racconterò una storia” promette Steve McQueen mentre contempla, non senza rimpianti, la radiosa Sharon Tate che danza a bordo piscina sulle note di “Son of a lovin’ man” dei Buchanan Brothers, immersa nella sfrenata euforia notturna della Playboy Mansion. “C’era una volta… In nessun altro suo film, Quentin Tarantino ci aveva raccontato una storia con tanta nostalgia: un’atmosfera di velata melanconia pervade la Los Angeles del 1969, nella sua luce calda e polverosa che accarezza giovani ragazze hippie che si tengono per mano nel crepuscolo; nella sfavillante illuminazione dei neon che fendono le prime tenebre, nelle insegne dei cinema che ravvivano ricordi d’infanzia, nell’emarginazione di un drive-in di periferia, in una roulotte parcheggiata nel fango, nel ritmo sincopato delle canzoni trasmesse alla radio per ingannare la solitudine della notte. Sin dalla prima scena de “Le iene”, il regista di Knoxville ha sempre dimostrato una strepitosa capacità di narrare. Ma nel suo nono film c’è qualcosa di inedito: le storie narrate si frammentano in tessere di un mosaico impazzito, che lo spettatore non sempre riesce a rinsaldare in un disegno ben definito. La struttura diegetica della pellicola risulta sfuggente e spiazzante, disarticolata in arabeschi di un’architettura labirintica, dispersa adagio nel lento fluire di uno sguardo quasi documentaristico, che trova la sua incarnazione cinematografica perfetta nelle lunghe carrellate aeree girate con il dolly. Tuttavia la frantumazione dei piani narrativi si spinge ben oltre Pulp Fiction. Come avviene soltanto nei grandi film sul cinema, le narrazioni si accumulano una sull’altra, sulla striscia sottile che separa la realtà dalla finzione. Tarantino ci propone una raffinata narrazione elevata al quadrato. Non è l’abituale citazionismo dell’autore losangelino, ma una dichiarazione d’amore al linguaggio cinematografico in sé, un messaggio nella bottiglia che ha la limpidezza e il languore testamentario di un addio. La cifra stilistica del film è senza dubbio la dilatazione temporale: il tempo è il vero protagonista, come ci insegna Sergio Leone, del mondo meta-cinematografico di Tarantino. Nella città degli angeli Booth sconfigge i diavoli di Charlie; il cinema sconfigge ancora la Storia, l’illusione la verità. Come in un caleidoscopio, Tarantino propone una summa delle sue manie e ossessioni, riproponendoci filamenti iconici della sua carriera, perle da sgranare con un certo compiacimento narcisistico. Forse “C’era una volta ad…Hollywood” è il vero western sentimentale del regista di Knoxville. Forse è un po’ come l’Amarcord di Fellini, o Roma di Cuaron: una pellicola che vibra di sogni e impressioni melanconiche. Ma forse è anche la più lucida riflessione di Tarantino su un tema che innerva, in filigrana, tutta la sua filmografia: il tema del doppio, della finzione recitativa, dell’uomo in incognito che, inevitabilmente, “non è chi dice di essere”. Non è un caso che il personaggio più riuscito del film sia Cliff Booth, controfigura destinata a vivere nell’ombra “eterna” di un attore in declino. Un attore in declino che si guarda allo specchio alla ricerca di un uomo autentico. In quello specchio ognuno di noi può guardare se stesso, con le proprie fragilità, ambizioni, desideri e rimpianti. Con delicatezza commovente, dunque, Tarantino ha deciso di raccontare la reazione di uomini superati dal tempo, uomini che non riescono adattarsi alla nuova Hollywood, al “nuovo” mondo. Destinati a soccombere (o forse a rinascere), camminano in una notte stellata di fiaba, nel canto ancestrale dei grilli: in quella magia, nel buio utero della sala cinematografica, tutto può accadere. Certo: la vita sarebbe migliore se ognuno avesse un amico come Cliff. Il miglior Tarantino di sempre? Forse... Regia e Brad Pitt sono da Oscar!
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