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Scorsese e DiCaprio, ancora una volta insieme. E una nuova luce investe la storia dell’America

Quasi inseparabili dal 2002, la grande star di Hollywood e il suo mentore newyorkese sono il tandem più prolifico dell’ultimo decennio cinematografico. Killers of the Flower Moon – dal 19 ottobre in sala - è la loro sesta collaborazione.
di Marzia Gandolfi

mercoledì 11 ottobre 2023 - Focus

Quasi inseparabili dal 2002 (Gangs of New York), Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese formano al cinema il tandem più prolifico dell’ultimo decennio. Ma qual è il segreto del patto (un po’) faustiano che unisce la grande star di Hollywood e il suo mentore newyorkese? Alla vigilia dell’uscita di Killers of the Flower Moon, sesta volta insieme, facciamo un passo indietro e proviamo a raccontare la preistoria di un’alleanza artistica che ha marcato una nuova era. Al debutto degli anni 2000, Leo DiCaprio è il “re del mondo”. Ottenuto con Titanic (guarda la video recensione) lo statuto di star planetaria, non gli resta che capitalizzare un tale successo. Il passaggio di secolo però rimescola le carte, DiCaprio è diventato un idolo mondiale ma un attore insoddisfatto. Dopo tre tentativi a vuoto, tre film a grosso budget (La maschera di ferro, Celebrity, The Beach), DiCaprio sa di poter fare meglio.

Armato di una bella reputazione, e prima che questa svanisca troppo in fretta, decide di prendere in mano le redini della sua carriera e si concede il lusso di scegliere chi lo dirigerà nel prossimo futuro. Martin Scorsese è la scelta più ovvia. Le sue messe in scena virtuose e barocche sono il ‘laboratorio’ perfetto per le sperimentazioni di un attore esigente. La sua rigorosa cinefilia poi lo spinge a lavorare coi migliori, a fare di ciascuno dei film a cui partecipa un evento straordinario. In pieno crepuscolo degli dèi e dello star system, quando ogni nuovo volto spera di sfondare vendendo l’anima al primo cinecomic venuto, DiCaprio sa bene come eludere il rischio, privilegiando una singolarità sullo schermo che lo rende ancora più essenziale. Se anni fa avesse accettato l’invito di George Lucas a recitare nella ‘prelogia’ di Star Wars, le cose sarebbero forse andate diversamente. È tutta qui la forza di Leo, nessun bisogno di spade laser o di costume da supereroe per attirare le folle al cinema e affascinarle. Sfidando le mode, impone il suo magnetismo e stimola gli autori più grandi, per cui diventa una sorgente di rinnovamento. A colpi di ruoli culto compone una carriera d’oro massiccio.


Sull’altro fronte, e all’epoca del loro incontro, Martin Scorsese ha già un bastimento di film all’attivo che hanno lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema. Audaci, innovativi, leggendari, mostruosamente ambiziosi, i suoi monumenti (Taxi Driver, Toro scatenato, Re per una notte, Quei bravi ragazzi, Cape Fear, Casinò) hanno tutti un punto in comune: Robert De Niro. Dal 1973 al 1995, è stato l’attore prediletto dell’autore. Vero e proprio uomo-artificio, è il depositario di tutti i trucchi di magia, il demiurgo che scatena gli elementi e provoca il diluvio, il volto sullo schermo di una rabbia contenuta fino all’esplosione. Dopo Casinò i due si perdono di vista e Scorsese fatica a rinnovare il successo del passato.

Ma sarà proprio De Niro a passare il testimone a DiCaprio nel 1993, introducendolo al regista. I due attori hanno appena finito di girare insieme Voglia di ricominciare. Leo non ha ancora vent’anni e venera già Martin Scorsese che confessa di aver apprezzato la sua performance in Buon compleanno Mr. Grape, ma passeranno alcuni anni prima che il regista gli proponga un ruolo e gli dimostri la stessa lealtà riservata a De Niro, che tornerà in nuovi capitoli del suo cinema un decennio più tardi. Se Bob incarna lo Scorsese radicalmente fuori dal sistema, tutto quello che l’autore compone intorno a DiCaprio rientra pienamente nel sistema hollywoodiano, più opulento e spettacolare nella forma, più diretto ed etichettabile nel contenuto. L’evoluzione da outsider a insider si riflette nei ruoli incarnati dai due attori. Che si corrispondano o meno (i veterani di guerra di Taxi Driver e Shutter Island, i delinquenti del ghetto di Mean Streets e The Departed), i personaggi interpretati da De Niro e DiCaprio sono separati da una barriera netta.

Quelli di De Niro covano sempre nell’ombra, dapprima semplici spettatori - persino vittime - della storia americana, poi con Quei bravi ragazzi e Casinò guadagnano il centro e i riflettori, una posizione ai vertici ma sempre dentro un mondo circoscritto e clandestino. Diversamente, gli eroi di DiCaprio sono legati, in un modo o nell’altro, al potere centrale, che fa dei suoi protagonisti delle figure iconiche della storia del loro Paese, dal 1862 (Gangs of New York) a oggi (The Wolf of Wall Street). La prima volta con Scorsese è una seconda nascita per l’attore, che “ribolle di vita”, come gli farà notare il ‘macellaio’ spietato di Daniel Day-Lewis, il primo a colpire il bel volto da star adolescente che DiCaprio desidera tanto temprare.


In foto Leonardo DiCaprio in una scena di The Departed.

Quel volto da bambino corrisponde perfettamente al carattere e ai sogni infantili di Howard Hughes che immagina di poter rovesciare tutto - il sistema hollywoodiano come la realtà tecnica e fisica dell’aeronautica - con la sola forza di volontà. In un salto in avanti fino al 1927, Scorsese gira The Aviator, riconfermando con DiCaprio la violenza abituale e frequente del suo cinema. Violenza che precisa e incarna altrimenti. Nei primi film prende i tratti di Robert De Niro per scatenarsi fisicamente, con DiCaprio si fa sorda e invisibile, pronta a distruggere i suoi personaggi dall’interno. La continuità è evidente, nella temporalità delle storie e nei disturbi. La violenza prende allora la forma del sembiante giovanile e angelico di Leonardo, che maturerà progressivamente fino a indurirsi negli anni di lavoro con Scorsese. Un volto da ‘Romeo’ che film dopo film si divertiranno insieme a stropicciare, scheggiare, abbronzare...

La giovinezza di DiCaprio, all’opera in The Aviator, ripristina un certo glamour hollywoodiano, condiviso dal regista e dalla star, ed è al servizio di un re bambino bloccato nelle sue fobie e afflitto da disturbi ossessivo-compulsivi. Howard Hughes è un personaggio tipicamente scorsesiano, in bilico tra eccesso, hybris e dannazione. Un uomo che si eleva al di sopra degli altri e poi cade. Il risultato di questa seconda impresa è una raffica di nomination agli Oscar: DiCaprio è finalmente nominato come miglior attore, Scorsese rispolvera il suo blasone. Il matrimonio della ragione si trasforma in una grande storia d’amore. To be continued…

Intanto, concedendoci uno scarto nella cronologia dei film, la deriva paranoica di Hughes diventa galoppante e incontrollabile in Shutter Island. DiCaprio interpreta l’agente federale Teddy Daniels, in prima linea contro il Terzo Reich e nelle truppe di terra che entreranno nel campo di concentramento di Dachau. Ancora una volta, il volto di DiCaprio è lo specchio che riflette lo stato dell’America all’epoca del racconto, siamo nel 1954. La sua apparizione al principio del film, coi lineamenti deformati dalla ‘nausea’, è uno shock terribile che collega Shutter Island alla fine di The Aviator. La missione di Shutter Island, veicolata dal personaggio del dottor Cawley, è quella di trovare un modo per curare le ferite interiori dell’eroe e di un intero Paese, per recuperare ciò che è andato perduto: una vitalità in sintonia con risorse immense.


In foto Leonardo DiCaprio in una scena di The Aviator.

Incuneato tra The Departed e The Wolf of Wall Street, Shutter Island piazza sul finale una domanda che non riguarda tanto la possibilità di guarigione ma come sopravvivere in un mondo sconfitto dal male. Un male impossibile da debellare e insinuato insidiosamente. Diversamente da Gangs of New York o The Aviator, il futuro non è più luogo di grandi speranze, lobotomia o bomba all’idrogeno minacciano concretamente l’annientamento di ogni individuo. In quell’abisso che preoccupa e angoscia, il Teddy di DiCaprio si domanda cosa sarebbe peggio: “vivere da mostro o morire da uomo perbene”. The Departed e The Wolf of Wall Street esplorano queste due vie. Billy Costigan/DiCaprio, giovane agente infiltrato muore da “good man” perché c’è qualcosa di marcio in America. Vittima espiatoria simbolica, l’attore è colpito più duramente che altrove, per la prima e unica volta non sopravvivrà. La fotografia di Billy posata sulla sua tomba fa di lui un eroe modello, eternamente giovane, puro, perfetto, ma soprattutto eternamente morto, senza aver avuto la minima chance di vivere.

L’altra via è quella di Jordan Belford/DiCaprio, trader ossessionato dall’avidità, ebbro di dollari che pratica la dissolutezza in tutte le sue forme. Jordan Belfort “vive come un mostro” e si riprende come la Fenice dalle sue ceneri, non c’è Black Monday che tenga. Cinico e senza pietà, appartiene ai parassiti del sistema e non aspira a produrre nulla di concreto. Il mondo reale per lui non esiste e le droghe sono il suo migliore alleato per continuare a negarlo, diventando sempre più ricco e potente, troppo grande per fallire come le banche. Il ritorno di Leo e Martin a New York si accompagna a una brutale regressione, è la legge della giungla, senza limiti o emendamenti.

L’America è tornata allo stato selvaggio di Gangs of New York, la sua evoluzione è stata un inganno. Il solo slittamento lo incarna il personaggio di DiCaprio: Amsterdam Vallon, figlio del popolo disprezzato e sfruttato, è diventato Jordan Belford e ‘gioca’ dall’altra parte della barricata, tra i ricchi della 5th Avenue e di Long Island.


La collaborazione tra Scorsese e DiCaprio ha gettato negli anni nuova luce sul suo cinema e sulla storia dell’America, a cui si aggiunge oggi Killers of the Flower Moon, adattamento dell’inchiesta di David Grann sulla “condanna a morte”, nel 1920, degli indiani Osage, un popolo nativo che si era arricchito grazie al petrolio. Autore e attore ci hanno messo anni per trovare la chiave del racconto. Se il libro segue il personaggio dell’investigatore Thomas Bruce White (Jesse Plemons nel film), pioniere della polizia federale, Scorsese devia il cammino e trova un costume nuovo per DiCaprio, raccontando sempre, e con lo stesso vigore, un’ascesa e una caduta di grande densità e crudeltà. Scorsese incontra De Niro e DiCaprio e in barba alla Marvel gira il ‘cinema per adulti’ con attori in carne, ossa e sangue che hanno bisogno di grandi risorse per allontanare lo spettro della famosa caduta scorsesiana.

In primo piano, l’attore è un truffatore avido e cretino, un idiota singolarmente toccante e insieme una figura grottesca del capitalismo, nella sua accezione più estrema: il suo Ernest vuole tutto e il suo contrario, la sua libertà e quella degli altri, la guerra e la pace, la moglie viva e morta. Ancora una volta Scorsese filma attraverso il suo attore la decadenza e il grande racconto delle dolorose fondamenta dell’America, osservando nella stessa avventura gli ultimi fuochi del West del cowboy, l’assimilazione degli amerindi superstiti, il razzismo e la nascita della giustizia federale. Un altro film con DiCaprio, un’altra pagina vertiginosa, perché contro ogni tentativo di ricerca d’identità o di resilienza dei suoi eroi assistiamo inesorabilmente alla loro autodistruzione. Osservate quella sottile progressione nella recitazione che DiCaprio è in grado di spingere al limite. Un impulso pessimista ma spettacolare.


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