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Per raccontare la vita sciagurata di Jordan Belfort, Scorsese recupera la struttura di uno dei suoi film migliori in assoluto, ‘Quei bravi ragazzi’. In entrambi i casi, alla base c’è la (auto)biografia del protagonista che racconta la propria parabola esistenziale senza risparmiarsi le peggiori abiezioni, ma lasciando una vaga sensazione di nostalgia per i giorni di gloria a dar l'impressione che il pentimento non sia proprio completo: la sceneggiatura (qui firmata da Terence Winter) la trasforma in un racconto in prima persona, con la voce sopra del protagonista che, d'ogni tanto, si rivolge direttamente allo spettatore guardando in macchina mentre attorno a lui la sua storia procede a ritmo adrenalinico, quell'adrenalina che – grazie ad abbondanti aiuti chimici – sostiene gli insaziabili personaggi che la popolano. Se Henry Hill aveva sempre voluto essere un gangster, Jordan Belfort ha come unico scopo i soldi a qualsiasi costo per fare la bella vita (non per niente, la sua ispirazione è stato il Gordon Gekko de ‘l'avidità è bella’ in ‘Wall Street’): entrambi verranno fregati, alla fine, dalla sensazione di onnipotenza che un'impunità troppo prolungata procura loro, oltre alla perdita del controllo dovuta ai troppi stupefacenti. Belfort è un ingordo: di sesso, alcool, droga e, ovviamente, del denaro che serve a comprarli. Forte di una grande capacità di venditore con un tappeto sullo stomaco, inizia a piazzare titoli spazzatura a sprovveduti piccoli investitori confidando sulla magnetica attrattiva che i soldi facili hanno su chiunque: quando, dal piccolo gruppo di disperati che ha raccolto, la sua società inizia a diventare una potenza grazie anche a commissioni salatissime, comincia una caccia all'investitore istituzionale e, da una posizione in bilico su ciò che è consentito, ci si inoltra sempre più nei territori dell'illegalità, inevitabile calamita per l'attenzione dei federali che - un po’ per testardaggine, un po’ per fortuna – finiranno per incastrarlo. Varie critiche sono piovute sul film perché non mostra le conseguenze delle azioni del protagonista e della sua società, soprattutto per quanto riguarda la gente che ha distrutto i propri risparmi inseguendo i sogni di ricchezza promessi da un pugno di truffatori senza scrupoli: sarebbe però stato uscire dal seminato del racconto, tanto più che, dalle loro azioni, si capisce benissimo che genere di persone fossero Jordan e compagnia (se non bastasse la brutale spiegazione su come funziona il brokeraggio affidata al trasformista McConaughey poco dopo l'inizio). Il giudizio su di loro è difatti spietato, un gruppo di persone moralmente abiette, pronte a bruciare le montagne di soldi malamente fatti in orge propulse da quantità industriali di droghe: i rapporti sessuali, anche di gruppo, e gli intossicamenti vari si sprecano – compreso un corso in Quaalude per chi si fosse perso quello nei romanzi di Ellroy – e non stupisce allora che il film abbia una produzione indipendente, lontana dagli studios. Di questa bella gente, Belfort è il leader assoluto, un avido e spietato bastardo dentro che distorce il mito, molto statunitense, dell'uomo che si è fatto da sé, ma che è una sorta di dio per chi lavora per lui e ne condivide gli ‘ideali’. Interessato solo a se stesso, non si limita a fregare gli sconosciuti clienti, ma chiunque gli stia intorno se solo c'è da guadagnarci in qualche modo: ovviamente fedifrago nei confronti delle due mogli (anche se la seconda ha le mirabili fattezze di Margit Robbie) e, infine, disposto a tradire i suoi soci per scampare una pena ben più dura dei tre anni che gli vengono comminati. Nei suoi panni, DiCaprio – che è stato il motore del progetto – è semplicemente perfetto, dando un'ulteriore testimonianza di una maturazione attoriale ormai compiuta: non da meno è il resto dello smisurato cast, nel quale non si può non sottolineare la bravura di Jonah Hill nei rotondi, esagitati panni del sodale di sempre Donnie. Scorsese racconta le loro avventure puntando sul registro dell'ironia acida piuttosto che su quello del dramma, tenendo alto il ritmo grazie alla serrata scrittura di Winter (sulla quale gli attori sono stati spesso liberi di improvvisare) e a scelte visive che sanno colpire per la loro efficacia, a partire dalla decisione di utilizzare un montaggio irregolare e lenti anamorfiche (la fotografia è di Rodrigo Prieto) quando i personaggi, e in particolare Jordan, sono strafatti. Ne escono così numerose scene da ricordare, ad esempio quando Belfort incontra per la prima volta l'agente Denham (Kyle Chandler) a bordo del proprio yacht oppure tutto il lungo episodio dello sballo da Quaalude. Quest'ultimo dà anche lustro a una terza ora complessivamente più debole e faticosa delle due, al limite della perfezione, che la hanno preceduta: una perdita di ritmo che abbassa di qualche decimale il giudizio complessivo anche per colpa della sconcertante banalità dell'episodio ‘italiano’ (che conferma lo sguardo provinciale sull'Europa al quale non si sottrae neppure la Svizzera, con il banchiere al limite della caricatura di Jean Dujardin). Così ‘Gloria’ finisce nella bella colonna sonora curata da Robbie Robertson con, per il resto, ben altro gusto: nella prima parte è soprattutto il blues elettrico a prevalere, poi ci si sposta di più verso il pop per finire con l'indovinata (e solo all'apparenza stravagante) scelta di utilizzare la versione di ‘Mrs. Robinson’ dei Lemonheads per accompagnare l'irruzione dei federali nella società di Belfort: l'uso delle musiche (e delle canzoni in special modo) risulta essere, peraltro, un altro punto di contatto con ‘Quei bravi ragazzi’.
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hollyver07
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martedì 28 gennaio 2014
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un film in bilico... forse...!?
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Ciao catcarlo, perdona l'intrusione. Intanto, per quanto possa valere la mia opinione, ritengo tu abbia scritto una valida recensione/commento sul film. Convengo parzialmente con la tua opinione che una decisa presa di posizione di Scorsese, a favore degli sventurati abbindolati da Belfort e C., avrebbe snaturato il tema del film stesso. Non facendolo, a mio avviso, il regista è incappato nell'ambiguità tipica di alcuni biopic, laddove l'esclusivo, per quanto approfondito e cinico possa essere, "sguardo" sul personaggio rischia di produrre un'immagine non agganciata alla realtà degli eventi ad esso correlati. E' pacifico... il comportamento di Belfort sortì effetti disastrosi per altre persone ma, nella struttura del film, manca un qualcosa che lo stigmatizzi in maniera inequivocabile.
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Ciao catcarlo, perdona l'intrusione. Intanto, per quanto possa valere la mia opinione, ritengo tu abbia scritto una valida recensione/commento sul film. Convengo parzialmente con la tua opinione che una decisa presa di posizione di Scorsese, a favore degli sventurati abbindolati da Belfort e C., avrebbe snaturato il tema del film stesso. Non facendolo, a mio avviso, il regista è incappato nell'ambiguità tipica di alcuni biopic, laddove l'esclusivo, per quanto approfondito e cinico possa essere, "sguardo" sul personaggio rischia di produrre un'immagine non agganciata alla realtà degli eventi ad esso correlati. E' pacifico... il comportamento di Belfort sortì effetti disastrosi per altre persone ma, nella struttura del film, manca un qualcosa che lo stigmatizzi in maniera inequivocabile. L'unico, vero ed apprezzabile aggancio con la realtà di eventi fuori dal "mondo Belfort" è reso dalla figura dell'agente FBI Denham, è bella ma sostanzialmente poca cosa ed i termini di "morale complessiva" (che esagerazione...) mi son parsi orientati ad un nostalgico elogio, piuttosto che ad un ferrea esecrazione del personaggio - chissà... magari Scorsese ha voluto essere indulgente anche con se stesso -. Resta, a mio vedere incontestabilmente, un grande film. Scusa per l'inopinato tedio e saluti a te
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