Coinvolgente ed energizzante. Spesso divertente, surreale e grottesco. Eccessivo, ripetitivo e delirante nel portare in scena le ossessioni del protagonista e dei suoi amici: soldi, avidità, potere, droga, sesso, lusso, successo, fama.
Scorsese ci racconta la parabola di un broker negli anni dell’edonismo individualista reaganiano, Jordan Belfort, i cui sogni, realizzati, si trasformeranno in incubi.
Il film all’apparenza è un inno al mito del “sogno americano”, del “self-made man”, nella sua versione diabolica, ovvero all’uomo che, dal nulla, ma non importa se ci è riuscito in maniera illegale e immorale, ha costruito un impero. In realtà, Scorsese non giudica, lascia il giudizio allo spettatore. Egli descrive il mondo dei “gangsters” di una parte dell’alta finanza, quella malata, una giungla fatta di predatori avidi, vittime dell’assuefazione e dell’astinenza da vizi, perversioni e adrenalina, prendendo il punto di vista di Belfort, di cui racconta la personalità, le emozioni, le “imprese”. Uomini come lui saranno poi una delle cause principali della crisi economica mondiale che stiamo vivendo da qualche anno.
Alla fine della proiezione lo spettatore proverà un’attrazione, una simpatia nei confronti del protagonista (e, quindi, del film) che gli ha fatto vivere un’esperienza adrenalinica, forte, unica, oppure una repulsione, quasi un disgusto per le ripetute scene di stravizi. Allo spettatore toccherà stabilire se è valsa e vale la pena vivere una “parabola” come quella di Belfort.
Il film dividerà parte del pubblico e della critica per vari motivi: raccontare la vicenda soprattutto dal punto di vista di Belfort potrebbe produrre nello spettatore una certa assoluzione nei suoi confronti, una non condanna totale e c’è il rischio che passi in secondo piano la volontà dichiarata del regista di mettere in guardia la gente comune a non fidarsi dei venditori alla Belfort; il non approfondimento del conflitto tra Bene e Male, che è solo accennato, tra l’agente della FBI e Belfort; la scelta “furba” di trattare poco le tematiche finanziarie e manageriali per garantirsi la presenza in sala di un numero maggiore di persone; le fatiche lavorative di Belfort non ci vengono mostrate, ma solo la sua "ars oratoria" e la sua leadership; la ripetitività rischia di passare non come scelta deliberata, ma come mancanza di idee; non si accenna a crisi finanziarie.
The Wolf of Wall Street è molto Scorsese (in parte simile a “Quei bravi ragazzi” e a Casinò, in parte diverso, nuovo, innovativo), mescolato con un po’ di Stone, Tarantino, Gillian e De Palma.
Come il Gordon Gekko di Michael Douglas (Oscar per l’interpretazione) in Wall Street di Oliver Stone fu preso a modello da tanti, aspiranti e non, operatori di borsa, manager e imprenditori, così avverrà lo stesso con il Jordan Belfort di un Leonardo Di Caprio sopra le righe, da Oscar.
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