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Ciò che risulta più sorpassato in “2001” è la sua componente futurologica, vaticinante e oracolare. Come ogni utopista, Kubrick pretende di saper anticipare, prevedere e ipotecare l’esito e il destino necessari per il riscatto della storia, nel caso specifico l’”alter-nativa”, cioè una seconda nascita, il macrofeto in simbiosi cosmica. (Bibliografia “minimissima” di riferimento: “L’utopia nell’età dell’incertezza”, 5° e ultimo capitolo di Zygmunt Bauman, “Modus vivendi ecc.”, trad. it. 2007).
Per giunta, Kubrick pretende pure di disporre d’una diagnosi causale a proposito di quel che ostacolerebbe la vicenda storica dal suo approdo salvifico. David Bowman andrà verso “Giove e oltre l’infinito”, nella “Lux aeterna” di Ligeti, solo dopo aver fatto prevalere il corpo sul pensiero, sulla ragione, sul “logos”. La redenzione risiede nel recupero del ritmo endogeno del respiro ansimante e nella contemporanea disattivazione del cervello, elettronico e non.
Queste due tematiche erano onnipresenti nella cultura di quegli anni: la Scuola di Francoforte (in parte Horkheimer e Adorno, ancor più Marcuse e Fromm), Lacan, la nuova ondata di filosofi francesi (post-)strutturalisti erano concordi nel condannare la cosiddetta “docta ignorantia futuri” e nel riproporre un dualismo mente-corpo tutto a favore di quest’ultimo, l’anti-logocentrismo, la misologia, la dionisiaca spontaneità istintuale.
Tuttavia per metà film “2001” non si permette di descrivere l’avvenire come estrapolazione critica dei dati del presente. Si limita a raffigurare il nostro statuto costitutivo, il male cronico che ci affligge. L’astronauta che si allena in circolo dentro l’astronave è l’emblema dell’uomo-criceto, del nostro essere condannati a produrre, per coazione a ripetere, sempre gli stessi identici gesti, con sempre gli stessi erronei risultati. Il concetto è rafforzato dalla musica forse più epica e dolente dell’intera filmografia kubrickiana: “l’adagio della suite <> di Katchaturjan, che accompagna il footing solitario, desolato, maniacale di David all’interno della Discovery, [è] un lungo lamento degli archi (celli e viole prima, violini poi) che esprime un indicibile sentimento di abbandono e <>” (Roberto Pugliese, in “Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili”, a cura di Gian Piero Brunetta, Pratiche Editrice 1985, p. 235). Ma forse c’è anche dell’altro, la sottolineatura della nostra caducità, precarietà e fragilità. Si è soliti pensare che Kubrick evidenzi tale aspetto soltanto nel prefinale del film, con la rottura del bicchiere di vetro, citazione da “Quarto potere” di Welles. Eppure Paolo Cherchi Usai, a p. 241 del suddetto volume collettivo, si chiede che senso possa avere che un maniacale perfezionista come Kubrick abbia fatto soffrire il brano di Khacaturjan “di un taglio […], al termine del quale la musica riprende da una battuta ascoltata pochi istanti prima”. Perché non azzardare l’ipotesi che con tale “falla” egli abbia voluto intenzionalmente fornirci l’indizio, il segno di un’autodenuncia verso la sua stessa umana troppo umana imperfezione, osando farsene carico in prima persona come regista, autore, artista?
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