Gli 85 anni di Dustin Hoffman sono stati ampiamente ricordati. Era dovuto.

Il discorso può essere opportunamente esteso, perché il 1937 è una data magica, a dir poco. In quell'anno, oltre a Hoffman, sono nati: Robert Redford, Warren Beatty, Jane Fonda, Jack Nicholson e il britannico Anthony Hopkins. E' una generazione che ha cambiato il cinema. Attenta alla vita reale, alla politica, ai diritti civili, ai fatti del mondo. E c'è un segnale inalienabile, forte, gli Oscar. In 6 ne hanno vinti 13.
Redford 2, Beatty 2, Fonda 2, Hoffman 2, Nicholson 3, Hopkins 2. 

C’è una Jane Fonda combattiva, ancora presente nelle manifestazioni. Del resto, la sua vita privata e artistica è stata troppo viva, riconosciuta come modello di diverse generazioni. Ho cominciato da lei come… donna. I titoli che le hanno portato l’Oscar sono Una squillo per l’ispettore Klute (Pakula, 1971) ma decisamente importante è il secondo riconoscimento, Tornando a casa (Ashby, 1978) dove Jane si innamora di un reduce dal Vietnam costretto su una sedia a rotelle. Quel film diede a quella “sporca guerra” una dimensione decisiva: quella guerra, l’America l’aveva persa.

Anche Warren Beatty è di idee progressiste, di sinistra. Vale un esempio forte. Nel 1981 scrive, dirige e interpreta Reds, storia di John Reed, il giornalista comunista che partecipò alla Rivoluzione di Ottobre raccontandola nel libro I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Sarebbe riduttivo citare solo questo titolo che gli diede l’Oscar per la regia. La memoria di getto recupera Splendore nell’erba, Shampoo, soprattutto Gangster Story. Nel 2000 ottenne l’Oscar alla memoria di Irving Thalberg.    

Jack Nicholson. L’attore capace di tutto, mago, istrione, “fuoriditesta”. Passa alla storia per Qualcuno volò sul nido del cuculo (Forman 1975), suo primo Oscar dove fa un detenuto che affronta un problema intoccabile, il trattamento disumano riservato ai pazienti negli ospedali psichiatrici. Il titolo è nelle classifiche dei più grandi film americani di sempre. Gli altri due Oscar di Nicholson non presentano temi così eroici, valgono per la sua bravura: Voglia di tenerezza (non protagonista) e Qualcosa è cambiato.   

Anthony Hopkins, gallese, attore dalle basi nobili e complete, con tanto di esperienza teatrale al National Theatre di Maurence Olivier, ha dato corpo e volto al mitologico Hannibal Lecter, lo psicopatico primatista di crudeltà. In virtù del cosiddetto “fascino di satana” Hopkins (Oscar) ti fa stare dalla sua parte. Il film è Il silenzio degli innocenti.

Dustin Hoffman supera di poco il metro e sessanta, non è un modello di bellezza. Dunque ha dovuto compensare col talento. Rilevo i due titoli che gli hanno dato l’Oscar: Kramer contro Kramer (Benton 1979) istantanea di una famiglia che si sfalda. E Rain Man (Levinson 1988), vero virtuosismo di recitazione nella parte di un autistico.

Robert Redford lo considero il leader. Uomo e cineasta completo. La collaborazione col regista Sydney Pollack ha prodotto opere da cineteca. Alcune: Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, Come eravamo, I tre giorni del condor, La mia Africa, Havana. E poi le sue direzioni personali: Gente comune, che gli diede l’Oscar, In mezzo scorre il fiume, Quiz Show.

Tutti questi film nascono da temi precisi, socialmente vivi: l’ecologia, la corruzione dei media, i contrasti interni alla famiglia, la tutela della natura e degli animali. Redford ha fondato il Sundance Film Festival, una piattaforma che ha lanciato giovani cineasti di talento. Considero Redford l’ultimo divo che ha ripreso il filo d’oro dei giganti, eroi del cinema americano. Faccio tre nomi: Gary Cooper, Marlon Brando, Paul Newman. Gente che ha dettato moda, comportamento e cultura. Come lui.