cinemad70
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domenica 27 ottobre 2019
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tarantino, l'equilibrista
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Se c'è una cosa che Quentin Tarantino sa fare meglio di chiunque altro è invertire il senso tra realtà e immaginazione. E farlo fino in fondo, muovendosi da equilibrista tra inquadrature mai banali o prevedibili. C'era una volta a... Hollywood non è soltanto un film, ma il film dei film, un omaggio alla cinematografia partendo dal suo epitaffio. Perché è dal declino dei telefilm e della carriera di un attore di serie b che il regista parte per raccontare la sua più grande passione, trasportandoci un un caleidoscopio di citazioni e autocitazioni, vere o presunte, facilmente interscambiabili. Come interscambiabili sono i due protagonisti, Rick Dalton e Cliff Booth, attore e controfigura, o Booth e il suo cane (chi è più fedele e obbediente tra i due?) o, ancora, tra Dalton e Sharon Tate, ugualmente ignorati dalla gente comune sebbene l'attrice sia all'apice della sua carriera.
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Se c'è una cosa che Quentin Tarantino sa fare meglio di chiunque altro è invertire il senso tra realtà e immaginazione. E farlo fino in fondo, muovendosi da equilibrista tra inquadrature mai banali o prevedibili. C'era una volta a... Hollywood non è soltanto un film, ma il film dei film, un omaggio alla cinematografia partendo dal suo epitaffio. Perché è dal declino dei telefilm e della carriera di un attore di serie b che il regista parte per raccontare la sua più grande passione, trasportandoci un un caleidoscopio di citazioni e autocitazioni, vere o presunte, facilmente interscambiabili. Come interscambiabili sono i due protagonisti, Rick Dalton e Cliff Booth, attore e controfigura, o Booth e il suo cane (chi è più fedele e obbediente tra i due?) o, ancora, tra Dalton e Sharon Tate, ugualmente ignorati dalla gente comune sebbene l'attrice sia all'apice della sua carriera. Perfino la verità della bellezza e il gusto notoriamente feticistico del regista per i piedi sono messi in discussione: non si sono mai viste le dee di Hollywood russare come cavalli e mostrare piedi sporchi e pieni di calli. Non mancano inoltre i riferimenti ai prodotti pubblicitari di grande consumo interamente inventati, i Big Kahuna burger e le sigarette Red Apple, fatte passare come una pubblicità occulta. Ma è sulla manipolazione della Storia nella storia che Tarantino ci regala il suo colpo da maestro, affinché ci sfiori quel dubbio iniziale su cosa sia veramente reale e cosa non lo è. Perché al di là di ciò che solo apparentemente può sembrare un poetico omaggio al cinema, un po' decadentista un po' tornatoriano, il messaggio del regista è inequivocabile: il cinema è l'arte della finzione per eccellenza, avamposto del sogno. E non potrà mai esserci un tramonto del sogno ma la fine dei sognatori. Perché i sogni, in fondo, iniziano al tramonto.
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writer58
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mercoledì 23 ottobre 2019
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l'età dell'oro...
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A differenza di molti film che si ispirano a storie "vere", ripercorrendone i punti salienti, gli snodi, gli sviluppi, le dinamiche tra i personaggi e che c'informano, mediante le didascalie finali, sul destino dei protagonisti, la proposta di Tarantino rimodella il passato, liberandosi dalla necessità di seguirne l'evoluzione e gli esiti, in un gioco narrativo che restituisce al cinema la sua natura di arte trasformativa, di linguaggio liberato dalla dittatura dei fatti. Così come non ci si aspetta che un sogno ricalchi fedelmente la realtà della veglia, ma anzi dispone di immagini peculiari che devono essere decodificate per ricostruire la catena di significati, così il linguaggio del cinema assume pregnanza nel momento in cui si discosta dal flusso concreto degli eventi per costruire nuove associazioni e nuove storie.
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A differenza di molti film che si ispirano a storie "vere", ripercorrendone i punti salienti, gli snodi, gli sviluppi, le dinamiche tra i personaggi e che c'informano, mediante le didascalie finali, sul destino dei protagonisti, la proposta di Tarantino rimodella il passato, liberandosi dalla necessità di seguirne l'evoluzione e gli esiti, in un gioco narrativo che restituisce al cinema la sua natura di arte trasformativa, di linguaggio liberato dalla dittatura dei fatti. Così come non ci si aspetta che un sogno ricalchi fedelmente la realtà della veglia, ma anzi dispone di immagini peculiari che devono essere decodificate per ricostruire la catena di significati, così il linguaggio del cinema assume pregnanza nel momento in cui si discosta dal flusso concreto degli eventi per costruire nuove associazioni e nuove storie.
"C'era una volta a Hollywood" compie precisamente tale operazione: rivisita un periodo particolare del cinema USA, con un approccio insieme disincantato e nostalgico, disegna due figure che rappresentano archetipi dell'industria cinematografica - l'attore di film western di serie b in declino; il suo stuntman e guardia del corpo che vive in una roulotte-, li inserisce all'interno di un panorama sociale ben preciso- le dimore di Beverly Hills che ospitavano le stelle di Hollywood, Rick Dalton, interpretato da Di Caprio, è il vicino di casa di Polanski e Sharon Tate-, amalgama tutti questi elementi in una costruzione ibrida, che oscilla tra il drammatico e l'umoristico.
Rick Dalton è un attore che sente di essere ormai sul viale del tramonto Specializzato in ruoli di "cattivo" in film western di scarsa qualità, si rende conto di essere fuori dai giochi e cerca di placare la sua angoscia bevendo più di quanto dovrebbe. Cliff Booth (interpretato da un eccellente Brad Pitt) è la controfigura di Rick, nonchè suo amico, autista e guardia del corpo. Vive alla giornata insieme al suo cane, è dotato di un suo personale codice morale. Intorno ai due protagonisti, un insieme di personaggi di rilievo: Sharon Tate (interpretata da una brava Margot Robbie), i mitici Bruce Lee (Mike Moh) e Steve McQueen (Demian Lewis), il grande Al Pacino in un ruolo minore, i membri della banda Manson. Un grande cast che disegna il ritratto di un'epoca (il '69 ad Hollywood) che ha assunto nel tempo sfumature leggendarie.
L'opera di Tarantino si distacca per alcuni aspetti dal suo repertorio precedente: è un lavoro più meditativo, meno pulp (tranne che nelle sequenze finali),con sfumature malinconiche tipiche di chi si accosta a un mito della sua fanciullezza. Allo stesso tempo, però, ci sono elementi di continuità con altre proposte del maestro: la coesistenza di humour e thriller, il cinema che reinventa la storia (come in Bastardi senza Gloria), l'esplosione di una violenza catartica.
"C'era una volta a Hollywood" rappresenta un omaggio al cinema, un atto di amore nei confronti delle sue potenzialità affabulatorie. Già dal titolo, che ricorda il capolavoro di Sergio Leone e, in generale, il repertorio delle favole. Un ottimo film, dopo la doppia incursione di Tarantino nel genere western. Un film che non concede a Manson e ai suoi accoliti nessuna vittoria postuma. Ad uscire vittoriosa è la capacità di scomporre la realtà e ricomporla in nuovi insiemi, come si diceva in premessa. Perché questa è l'essenza del buon cinema.
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gumbus
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lunedì 21 ottobre 2019
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permesso accordato
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In questo caso Tarantino si rivela conciliante tra le Americhe, quella del successo e quella nera della dannazione, divise dal doppio taglio di una società/economia che non offre una seconda possibilità e una attitudine alla psicosi tragicamente tipica. Ecco, Tarantino vuole riconciliare tutti e per farlo usa la mente, la memoria, la psiche del suo pubblico e ci riesce. Riesce questa volta ad unire, a riavvicinare i lembi di una storia nazionale ferita e lacerata come celebrato in "Heitfull eight". Riesce a restituire splendore, forza e bellezza all'utopia hippie, senza nascondere la stupidità e l'illlusione di quel movimento. Riesce con i mezzi stessi del proprio mito a ridare onore e ricostruire il sogno al mondo fragile e assoluto dello star system anni 60, colpito al cuore in nome di una idea fasulla e delirante, E lo fa nel rispetto di un mondo ormai tramontato che in fondo chiedeva un ririto diverso da quello che fu.
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In questo caso Tarantino si rivela conciliante tra le Americhe, quella del successo e quella nera della dannazione, divise dal doppio taglio di una società/economia che non offre una seconda possibilità e una attitudine alla psicosi tragicamente tipica. Ecco, Tarantino vuole riconciliare tutti e per farlo usa la mente, la memoria, la psiche del suo pubblico e ci riesce. Riesce questa volta ad unire, a riavvicinare i lembi di una storia nazionale ferita e lacerata come celebrato in "Heitfull eight". Riesce a restituire splendore, forza e bellezza all'utopia hippie, senza nascondere la stupidità e l'illlusione di quel movimento. Riesce con i mezzi stessi del proprio mito a ridare onore e ricostruire il sogno al mondo fragile e assoluto dello star system anni 60, colpito al cuore in nome di una idea fasulla e delirante, E lo fa nel rispetto di un mondo ormai tramontato che in fondo chiedeva un ririto diverso da quello che fu. E Tarantino lo costruisce artamente, affettuosamente, ma col permesso dello spettatore stesso. Permesso accordato. Il cinema è anche questo.
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calogero salli
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domenica 20 ottobre 2019
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c'era tarantino...
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Una delusione...,da uno come Tarantino ci si sarebbe dovuto aspettare qualcosa di più...
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calogero salli
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domenica 20 ottobre 2019
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c'era una volta...tarantino...
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L'ultimo Tarantino non mi ha ne coinvolto ne convinto...,lo sfondo della Hollywood di quegli anni non si vede,non si percepisce...,volutamente deforma le cronache di quel periodo piegandole senza nessuna fondatezza o veridicità storica:Celebrativo ma niente di più
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trinkone
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giovedì 17 ottobre 2019
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uno spreco pazzesco
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Film inutile, come sprecare due grandi attori in una storia dove l'autocelebrazione prende il sopravvento. Storia inutile dove la furbizia di far entrare Nella trama il dramma di sharon tate, confonde lo spettator,Creando una sorta di aspettativa mal riposta. Usa un dramma per creare un film pieno di parole senza senso dove l'unico scopo è quello di far vedere riproduzioni perfette di insegne di cinema e teatri, riproduzione di oggetti, una sorta di megalomania totale. Scrive un film che ha tutte le caratteristiche del b movie anni 60 e lo fa volutamente, ingannando lo spettatore. Autocelebrarsi non serve se non si hanno idee meglio non fare nulla. Mi piacciono i commenti che vedono poesia capovilavoro e altro, menti chiuse vedono e giudicano come credono.
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Film inutile, come sprecare due grandi attori in una storia dove l'autocelebrazione prende il sopravvento. Storia inutile dove la furbizia di far entrare Nella trama il dramma di sharon tate, confonde lo spettator,Creando una sorta di aspettativa mal riposta. Usa un dramma per creare un film pieno di parole senza senso dove l'unico scopo è quello di far vedere riproduzioni perfette di insegne di cinema e teatri, riproduzione di oggetti, una sorta di megalomania totale. Scrive un film che ha tutte le caratteristiche del b movie anni 60 e lo fa volutamente, ingannando lo spettatore. Autocelebrarsi non serve se non si hanno idee meglio non fare nulla. Mi piacciono i commenti che vedono poesia capovilavoro e altro, menti chiuse vedono e giudicano come credono. Impossibile rivederlo.
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jlkbest72
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mercoledì 16 ottobre 2019
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solo perchè ti chiami tarantino...
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Trovo il film inutilmente lungo, noioso e senza traccie caratteristiche del noto regista.
Mancano i dialoghi ai confini dell'assurdo che hanno caratterizzato tutti i film di Tarantino
Mancano scene che ti fanno saltare sulla poltrona ed il film acquista un minimo di Tarantinità esclusivamente sulla parte finale (10 minuti)
Insomma non basta un cast ben carrozzato ed un nome altisonante per fare un film eccezionale.
A parte la fine l'unica sequenza degna di nota riguarda la scena con Pitt e Bruce Lee, il resto è noia e lentezza.
Facciamo una riflessione:
The Hateful Eight scimmiottavi te stesso riempiendo il film di dialoghi improbabili poco brillanti , attenzione non contraddico quanto detto sopra esprimo la critica nella qualità del dialogo e nella quantità (non puoi fare un film esclusivamente recitato per assurdità)
C'era una volta .
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Trovo il film inutilmente lungo, noioso e senza traccie caratteristiche del noto regista.
Mancano i dialoghi ai confini dell'assurdo che hanno caratterizzato tutti i film di Tarantino
Mancano scene che ti fanno saltare sulla poltrona ed il film acquista un minimo di Tarantinità esclusivamente sulla parte finale (10 minuti)
Insomma non basta un cast ben carrozzato ed un nome altisonante per fare un film eccezionale.
A parte la fine l'unica sequenza degna di nota riguarda la scena con Pitt e Bruce Lee, il resto è noia e lentezza.
Facciamo una riflessione:
The Hateful Eight scimmiottavi te stesso riempiendo il film di dialoghi improbabili poco brillanti , attenzione non contraddico quanto detto sopra esprimo la critica nella qualità del dialogo e nella quantità (non puoi fare un film esclusivamente recitato per assurdità)
C'era una volta .... è un mix di noia e clip scontate e già viste...
Preghiamo Quentin di smettere al più presto con queste uscite altrimenti il rischio è che distrugga la nomea di genio...
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samuelemei
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sabato 12 ottobre 2019
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un "lungo addio" alla città degli angeli
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“Vi racconterò una storia” promette Steve McQueen mentre contempla, non senza rimpianti, la radiosa Sharon Tate che danza a bordo piscina sulle note di “Son of a lovin’ man” dei Buchanan Brothers, immersa nella sfrenata euforia notturna della Playboy Mansion. “C’era una volta… In nessun altro suo film, Quentin Tarantino ci aveva raccontato una storia con tanta nostalgia: un’atmosfera di velata melanconia pervade la Los Angeles del 1969, nella sua luce calda e polverosa che accarezza giovani ragazze hippie che si tengono per mano nel crepuscolo; nella sfavillante illuminazione dei neon che fendono le prime tenebre, nelle insegne dei cinema che ravvivano ricordi d’infanzia, nell’emarginazione di un drive-in di periferia, in una roulotte parcheggiata nel fango, nel ritmo sincopato delle canzoni trasmesse alla radio per ingannare la solitudine della notte.
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“Vi racconterò una storia” promette Steve McQueen mentre contempla, non senza rimpianti, la radiosa Sharon Tate che danza a bordo piscina sulle note di “Son of a lovin’ man” dei Buchanan Brothers, immersa nella sfrenata euforia notturna della Playboy Mansion. “C’era una volta… In nessun altro suo film, Quentin Tarantino ci aveva raccontato una storia con tanta nostalgia: un’atmosfera di velata melanconia pervade la Los Angeles del 1969, nella sua luce calda e polverosa che accarezza giovani ragazze hippie che si tengono per mano nel crepuscolo; nella sfavillante illuminazione dei neon che fendono le prime tenebre, nelle insegne dei cinema che ravvivano ricordi d’infanzia, nell’emarginazione di un drive-in di periferia, in una roulotte parcheggiata nel fango, nel ritmo sincopato delle canzoni trasmesse alla radio per ingannare la solitudine della notte. Sin dalla prima scena de “Le iene”, il regista di Knoxville ha sempre dimostrato una strepitosa capacità di narrare. Ma nel suo nono film c’è qualcosa di inedito: le storie narrate si frammentano in tessere di un mosaico impazzito, che lo spettatore non sempre riesce a rinsaldare in un disegno ben definito. La struttura diegetica della pellicola risulta sfuggente e spiazzante, disarticolata in arabeschi di un’architettura labirintica, dispersa adagio nel lento fluire di uno sguardo quasi documentaristico, che trova la sua incarnazione cinematografica perfetta nelle lunghe carrellate aeree girate con il dolly. Tuttavia la frantumazione dei piani narrativi si spinge ben oltre Pulp Fiction. Come avviene soltanto nei grandi film sul cinema, le narrazioni si accumulano una sull’altra, sulla striscia sottile che separa la realtà dalla finzione. Tarantino ci propone una raffinata narrazione elevata al quadrato. Non è l’abituale citazionismo dell’autore losangelino, ma una dichiarazione d’amore al linguaggio cinematografico in sé, un messaggio nella bottiglia che ha la limpidezza e il languore testamentario di un addio. La cifra stilistica del film è senza dubbio la dilatazione temporale: il tempo è il vero protagonista, come ci insegna Sergio Leone, del mondo meta-cinematografico di Tarantino. Nella città degli angeli Booth sconfigge i diavoli di Charlie; il cinema sconfigge ancora la Storia, l’illusione la verità. Come in un caleidoscopio, Tarantino propone una summa delle sue manie e ossessioni, riproponendoci filamenti iconici della sua carriera, perle da sgranare con un certo compiacimento narcisistico. Forse “C’era una volta ad…Hollywood” è il vero western sentimentale del regista di Knoxville. Forse è un po’ come l’Amarcord di Fellini, o Roma di Cuaron: una pellicola che vibra di sogni e impressioni melanconiche. Ma forse è anche la più lucida riflessione di Tarantino su un tema che innerva, in filigrana, tutta la sua filmografia: il tema del doppio, della finzione recitativa, dell’uomo in incognito che, inevitabilmente, “non è chi dice di essere”. Non è un caso che il personaggio più riuscito del film sia Cliff Booth, controfigura destinata a vivere nell’ombra “eterna” di un attore in declino. Un attore in declino che si guarda allo specchio alla ricerca di un uomo autentico. In quello specchio ognuno di noi può guardare se stesso, con le proprie fragilità, ambizioni, desideri e rimpianti. Con delicatezza commovente, dunque, Tarantino ha deciso di raccontare la reazione di uomini superati dal tempo, uomini che non riescono adattarsi alla nuova Hollywood, al “nuovo” mondo. Destinati a soccombere (o forse a rinascere), camminano in una notte stellata di fiaba, nel canto ancestrale dei grilli: in quella magia, nel buio utero della sala cinematografica, tutto può accadere. Certo: la vita sarebbe migliore se ognuno avesse un amico come Cliff. Il miglior Tarantino di sempre? Forse... Regia e Brad Pitt sono da Oscar!
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[+] "...un po'' come l''amarcord di fellini"
(di serpina)
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roberto
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venerdì 11 ottobre 2019
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il peggior film di tarantino
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La sceneggiatura stavolta non funziona, non coinvolge, annoia (la cosa peggiore che possa accadere al cinema mentre si guarda un film è annoiarsi). Peccato perchè il cast è eccezionale ma sprecato, non essendoci una buona sceneggiatura.
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marcloud
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giovedì 10 ottobre 2019
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una favola per hollywood
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Tornare nel 1969 a Los Angeles è stato possibile grazie alla cura per la musica, la fotografia e per ogni singolo dettaglio scenico, quasi maniacale, di questa ennesima grande prova di Tarantino. Riportarci indietro per raccontarci una favola sulla tragedia della famiglia Polanski non è sicuramente un lavoro semplice. Infatti non c'è da stupirsi se dopo la prima ora di film, sono in molti a chiedersi annoiati: "quando arriva il sangue?". Eppure la magia questa volta non è nella quantità di sangue versato, ma è piuttosto nella cura per quei tanti dettagli e accorgimenti che hanno reso questa pellicola un grande omaggio alla Hollywood di fine anni '60 e all'epoca tutta italiana degli spaghetti-western.
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Tornare nel 1969 a Los Angeles è stato possibile grazie alla cura per la musica, la fotografia e per ogni singolo dettaglio scenico, quasi maniacale, di questa ennesima grande prova di Tarantino. Riportarci indietro per raccontarci una favola sulla tragedia della famiglia Polanski non è sicuramente un lavoro semplice. Infatti non c'è da stupirsi se dopo la prima ora di film, sono in molti a chiedersi annoiati: "quando arriva il sangue?". Eppure la magia questa volta non è nella quantità di sangue versato, ma è piuttosto nella cura per quei tanti dettagli e accorgimenti che hanno reso questa pellicola un grande omaggio alla Hollywood di fine anni '60 e all'epoca tutta italiana degli spaghetti-western. Il tema della vendetta è sempre sull'orizzonte di Quentin ma questa volta ha un sapore diverso. Quello dolce del lieto fine.
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