A differenza di molti film che si ispirano a storie "vere", ripercorrendone i punti salienti, gli snodi, gli sviluppi, le dinamiche tra i personaggi e che c'informano, mediante le didascalie finali, sul destino dei protagonisti, la proposta di Tarantino rimodella il passato, liberandosi dalla necessità di seguirne l'evoluzione e gli esiti, in un gioco narrativo che restituisce al cinema la sua natura di arte trasformativa, di linguaggio liberato dalla dittatura dei fatti. Così come non ci si aspetta che un sogno ricalchi fedelmente la realtà della veglia, ma anzi dispone di immagini peculiari che devono essere decodificate per ricostruire la catena di significati, così il linguaggio del cinema assume pregnanza nel momento in cui si discosta dal flusso concreto degli eventi per costruire nuove associazioni e nuove storie.
"C'era una volta a Hollywood" compie precisamente tale operazione: rivisita un periodo particolare del cinema USA, con un approccio insieme disincantato e nostalgico, disegna due figure che rappresentano archetipi dell'industria cinematografica - l'attore di film western di serie b in declino; il suo stuntman e guardia del corpo che vive in una roulotte-, li inserisce all'interno di un panorama sociale ben preciso- le dimore di Beverly Hills che ospitavano le stelle di Hollywood, Rick Dalton, interpretato da Di Caprio, è il vicino di casa di Polanski e Sharon Tate-, amalgama tutti questi elementi in una costruzione ibrida, che oscilla tra il drammatico e l'umoristico.
Rick Dalton è un attore che sente di essere ormai sul viale del tramonto Specializzato in ruoli di "cattivo" in film western di scarsa qualità, si rende conto di essere fuori dai giochi e cerca di placare la sua angoscia bevendo più di quanto dovrebbe. Cliff Booth (interpretato da un eccellente Brad Pitt) è la controfigura di Rick, nonchè suo amico, autista e guardia del corpo. Vive alla giornata insieme al suo cane, è dotato di un suo personale codice morale. Intorno ai due protagonisti, un insieme di personaggi di rilievo: Sharon Tate (interpretata da una brava Margot Robbie), i mitici Bruce Lee (Mike Moh) e Steve McQueen (Demian Lewis), il grande Al Pacino in un ruolo minore, i membri della banda Manson. Un grande cast che disegna il ritratto di un'epoca (il '69 ad Hollywood) che ha assunto nel tempo sfumature leggendarie.
L'opera di Tarantino si distacca per alcuni aspetti dal suo repertorio precedente: è un lavoro più meditativo, meno pulp (tranne che nelle sequenze finali),con sfumature malinconiche tipiche di chi si accosta a un mito della sua fanciullezza. Allo stesso tempo, però, ci sono elementi di continuità con altre proposte del maestro: la coesistenza di humour e thriller, il cinema che reinventa la storia (come in Bastardi senza Gloria), l'esplosione di una violenza catartica.
"C'era una volta a Hollywood" rappresenta un omaggio al cinema, un atto di amore nei confronti delle sue potenzialità affabulatorie. Già dal titolo, che ricorda il capolavoro di Sergio Leone e, in generale, il repertorio delle favole. Un ottimo film, dopo la doppia incursione di Tarantino nel genere western. Un film che non concede a Manson e ai suoi accoliti nessuna vittoria postuma. Ad uscire vittoriosa è la capacità di scomporre la realtà e ricomporla in nuovi insiemi, come si diceva in premessa. Perché questa è l'essenza del buon cinema.
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