Se Trump non fosse stato il Presidente degli USA, il movimento americano del cinema avrebbe premiato il film che meritava, La La Land.
di Pino Farinotti
Moonlight è un buon film che sarebbe stato perfetto per una sezione di Cannes o per il Sundance. È diventato perfetto per l'Oscar per via della politica e del momento contingente. Se Presidente degli USA fosse stata la Clinton, il movimento americano del cinema non avrebbe dovuto dare una lezione all'amministrazione, e avrebbe premiato il film che lo meritava, La La Land. L'occasione per mandare un messaggio a Donald Trump era troppo ghiotta e puntuale.
Moonlight presenta tutti i contenuti e i codici che... non sono congeniali, diciamo così, al Presidente, ma sono argomenti del cartello progressista, vasto, prevalente, che lo contesta: la vicenda di Chiron, dall'infanzia alla maturazione è un modello sociale completo ed efficace di una certa America: le minoranze, la povertà, l'omosessualità, la violenza, la droga, la città nemica, la quasi impossibilità di integrazione e realizzazione. Il tutto in chiave di totale africanità.
Un film buono ed efficace, con attori-non-divi buoni ed efficaci e con un regista Barry Jenkins, premiato con l'Oscar per la Sceneggiatura Non Originale, che, dopo aver firmato solo dei "corti", vede il suo film collocato nella storia del cinema. Ci vedo una certa ... sproporzione. Moonlight ha dunque goduto di vantaggi potenti a scapito di titoli migliori. Poi ci sono state compensazioni, ma erano dovute. Il premio alla regia, strameritato, è toccato a Damien Chazelle, che ha firmato La La Land.
Ribadisco la mia posizione rispetto alla politica quando invade il cinema. È triste e molesta per molte ragioni a cominciare da quella "artistica": umilia la qualità e il merito, sorpassa e mortifica l'opera. Purtroppo l'impegno e il talento profusi, magari grandi, non servono. Non c'è difesa dalla politica. È inaccettabile. Ma vengo a qualche buona notizia. Per l'attrice protagonista era impossibile defraudare Emma Stone. Qualche settimana fa avevo scritto addirittura al passato "Emma Stone ha vinto l'Oscar". Il promemoria: "Adesso tocca a Emma, anni 28. Mi è facile scrivere "predestinata", nella sua azione in La La Land ci sono tutti i registri e tutte le espressioni: speranza e delusione, dolore e felicità.
Emma non sarà un disegno di bellezza chirurgico alla Kidman o alla Theron, ma è un dono di talento e di freschezza, una bella ragazza vera. Dunque ancora più bella.
E poi il ballo, non sarà una Cyd Charisse o una Leslie Caron ma si muove con energia e grazia. E possiede la dote delle stelle, come diceva Minnelli "se c'è lei non vedi le altre". E c'è di più. In quelle grandi iridi azzurre e affettuose, se guardi bene scovi anche il feto scalpitante del sesso. E certo non guasta. Billy Wilder diceva che a un'attrice non basta essere brava, deve essere una che nelle fantasie cura i foruncoli degli adolescenti, come Liz e Marilyn. Credo che a Emma appartenga quella terapia...".
Condivido il premio a Casey Affleck, capace, in Manchester by the Sea, di una performance completa, quasi opposta, con momenti di implosione e di esplosione di grande efficacia. Ed è legittima anche la statuetta a Il cliente di Asghar Farhadi, autore iraniano sicuro, già vincitore di Oscar cinque anni fa con Una separazione. Anche questa è un'attribuzione politica: il regista non era presente alla serata per protesta contro le leggi anti immigrazione di Trump. Per fortuna nessuno è stato defraudato. Il film, ribadisco, meritava.
Infine una nota su Fuocoammare che partecipava come documentario. L'opera di Gianfranco Rosi ha fatto incetta di premi. Ha vinto persino l'Orso d'Oro al festival di Berlino come film assoluto.
Fuocoammare è un titolo di qualità, ma si è valso, per l'argomento che sappiamo, Lampedusa e i migranti del mondo, dolente e complicato nodo delle nazioni, di una potente spinta quasi imbattibile. "Quasi", perché per gli Oscar gli americani presentavano un loro titolo "politico" O.J.: Made in America di Ezra Edelman. Lo hanno preferito a Lampedusa.