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50 anni fa Sergio Leone

Nel 1966 usciva nelle sale il terzo titolo della Trilogia del dollaro.
di Pino Farinotti

domenica 21 agosto 2016 - Focus

Nell'estate del 1966 era nelle sale Il buono, il brutto, il cattivo, il terzo titolo della cosiddetta serie del dollaro, meglio ancora di Clint Eastwood. Il film era stato preceduto da Per un pugno di dollari (1965) e Per qualche dollaro in più (1964). Tutto nasceva dal master, titolo della rivoluzione. Significa che Sergio Leone con quei "dollari" stava reinventando il genere western, di fatto, lo stava distruggendo, per lo meno distruggeva, diciamo sorpassava, i codici dei grandi classici: l'avventura, i fiumi, i monti e la valle dei monumenti, il buono e il cattivo, la frontiera. E l'eroe "forte e leale", era il primo comandamento, certo semplice e scontato, ma era il piedestallo più sicuro. Gli eroi di Leone potevano essere forti, ma certo non molto leali. È un dettaglio, ma non di scarsa importanza. E poi le donne, nei film della trilogia non sono reperibili, per lo meno in ruoli primari. Era lo stesso Leone a spiegare: "Le donne rallentano il racconto, sono superflue". E citava come esempio Sfida all'O.K. Corral, di John Sturges, con Burt Lancaster e Kirk Douglas, dove la "donna" Rhonda Fleming, rossa stupenda, fa le sue apparizioni e non vedi l'ora che si tolga di mezzo per riprendere il filo dell'avventura. Dobbiamo aspettare la fine del "trittico" per vedere una donna con un ruolo vero, è Claudia Cardinale in C'era una volta il west. Un ripensamento quasi opportuno ma non del tutto sentito.

A Sergio Leone, coi suoi western, è riuscita un'impresa impossibile, re-insegnare il genere ai maestri inventori.
Pino Farinotti

Questa premessa sembra anomala, magari impopolare, ma prescinde dal talento del regista romano, che è grande. Leone aveva esordito, nel 1961, come firma unica, col Colosso di Rodi, un avventuroso in costume non particolarmente ricordabile. Poi, tre anni dopo, l'illuminazione, appunto. Quando arrivò sugli schermi Per un pugno di dollari, per le prime settimane passò inosservato, quasi ignorato dalla critica, poi cominciò a decollare, poi si attestò come qualcosa di originale, quindi si compose la chimica, non sempre misurabile, che pone il titolo nel cartello dei riformatori, di fatto, nella storia del cinema. E qui non può mancare una citazione decisiva, Ennio Morricone che con la sua musica, potente e ricordabile, pose un marchio forte, quasi, come la regia. Ma poi c'era un'altra grande invenzione, Clint Eastwood. Un metro e 93', presenza enorme, biondo e occhi azzurri, caratteristiche irrinunciabili per gli eroi del west. Leone lo aveva scovato in una serie televisiva, western, di scarso successo, Rawhide, della fine degli anni cinquanta. Clint ha interpretato la trilogia con una sola espressione del volto. Ma funzionava. Il suo personaggio, più cattivo che buono, silenzioso, senza nome, con quel poncho, ha fatto estetica e ha fatto storia. Lo abbiamo visto mille volte nei film figli e nipoti degeneri dell'originale. Quando fece il primo "Leone" aveva 34 anni. E non poteva più perdere tempo. E non lo ha perso. Dopo Leone, Eastwood si è emancipato diventando regista universale, sappiamo. Peraltro, raccogliendo il testimone-western del maestro, lo ha evoluto, arrivando, nel 1992, con Gli spietati, a vincere quattro Oscar, i più importanti. Un dato: ai grandi classici di Ford, Hawks, e DeMille non era mai stato attribuito un Oscar, nemmeno uno. Significa che il western come genere nobile, degno della statuetta, arriva anche da Leone.


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