Aronofsky fa cinema d’ossessioni, pregno di corpi solcati dalla sofferenza, psicologie distorte, umori visionari. Dopo The Wrestler, strameritato Leone d’Oro a Venezia 2008, il regista del suburbano e allucinato Requiem for a Dream mette in scena un contraltare acido al film con Mickey Rourke. Con le spalle ben protette dal precedente successo di critica che ha fatto dimenticare a molti il fiasco colossale di The Fountain, Aronofsky, nato e cresciuto a Brooklyn, ritorna alle tematiche visive e strutturali che gli sono più familiari e congeniali.
“Black Swan” è un film psicotropo e inquietante, che interessa e avvince per l’atmosfera di sordido mistero che trasuda da ogni inquadratura, pur non squassando mai, se non nel finale, l’anima dello spettatore. La messa in scena, pennellata sulle magniloquenti e coinvolgenti melodie del Lago dei Cigni più che sulle creazioni originali di Clint Mansell, oscilla danzante dal primo piano al dettaglio, tradisce in più in punti i trascorsi indie di Aronofsky, vira di soppiatto nell’horror, seziona e scandaglia con cavillosa perizia e sincera affezione il corpo smagrito, solcato, sanguinante della protagonista. In comune con The Wrestler, questo Cigno Nero ha infatti il proposito di scandagliare la carnalità attoriale, un’autentica ossessione per Aronofsky fin dai tempi di Pi Greco. I muscoli tumefatti di Randy The Ram lasciano qui il posto alla fragile e smagrita sagoma danzante della Portman, strepitosa e tormentata ballerina “frigida” del New York City Ballet: Aronofsky si prodiga a sublimarla tra inquadrature ad altezza di nuca (altro inequivocabile rimando a “The Wrestler”) e primi piani fitti, saturi, di pura bellezza straniante.
“Black Swan”, a volerlo imbrigliare in una voluttuosa definizione di genere, è un mélo noir a tinte forti, più che un thriller. Se thriller lo si considerasse, il film risulterebbe zoppicante, alterno, quasi mal riuscito. La tensione é diluita, incatenata in meccanismi complessivamente abbastanza prevedibili. Ma l’intento di Aronofsky si spinge ben al di là del puro infiocchettamento da gratuito thriller del torbido: il suo è un film sulla genesi del male, sulla metà oscura, su quel sordido aggrovigliarsi della psiche che sfocia nella frammentazione concentrica dei punti di vista, tra turbe oniriche e acuminate pulsioni sessuali di ogni forma e natura. La fredda e metodica lucidità della Nina Seyers di Natalie Portman é stuzzicata, morsicata, vessata dalla melliflua ambizione del coreografo Vincent Cassel, che la esorta con luciferina fascinazione a cavare dal proprio candore asettico la sensualità destabilizzante del Cigno Nero. Il suo “gemello” cattivo e sensuale, in altre parole, che trasfigurerà Nina in un percorso di metamorfosi inesorabile e affastellato, reso sullo schermo come il più pingue degli incubi visionari. Una traballante discesa agli Inferi che gioca tutto sulla contraddizione, sul sogno-non sogno, sulla fragilità ferita e agonizzante.
Il balletto, in tutto ciò, un po’ scompare. Si defila sullo sfondo, sacrificato, ridotto a succulento contorno, ad ambientazione magnetica ma indubbiamente secondaria. Salvo poi riaffiorare, prepotente e ossessivo, in un finale dalla bellezza stordente. Una chiusura (forse, una quadratura) del cerchio che ancora una volta rimanda a The Wrestler: un altro volo conclusivo, solo che stavolta è un delicato volo di cigno, apice ed emblema di una parabola umana ed artistica in cui l’arte si sovrappone tragicamente alla vita, esasperandone e distorcendone gli istinti, le pulsioni, le sofferte emozioni. Si resta impietriti, raggelati da un film straniante, a osservare un’abbacinante luce bianca. Ammutoliti. Che sia bello o brutto, che piaccia o non piaccia, “Black Swan” nonostante le imperfezioni ha la forza di arrivare fino in fondo, con coraggio e in punta di piedi.
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