Il gigante del grottesco nostrano nel suo film più giganteggiante. La versione firmata Marco Ferreri della battaglia del Little Big Horn é un coacervo di tutti gli sfilacciati teoremi provocatori che hanno consacrato il mito di un autore irripetibile e prezioso, un regista venuto dal futuro per mostrarcene e prefigurarcene le successive, "eccessive" distorsioni. O per rileggere a suo modo, come in questo caso, il passato. Ferreri, che ha fatto del pungente macchiettismo all'acido muriatico il suo corrosivo marchio di fabbrica, opera su certi attori con la veemenza immaginifica di uno spiantato demiurgo dell'improbabile: Mastroianni con una fluenta chioma corvina nei panni di Custer é una maschera (mai più) rivista e rivisitata, indimenticabile, d'irripetibile unicità. E nonostante l'approccio più convenzionale ad altri caratteri (Tognazzi é un pernacchione boccacesco impregnato d'un certo vitalismo caustico, che serpeggia sornione in tutto il film), "Non toccare la donna bianca" é la quintessenza di un cinema popolaresco che disvela la sua anima segreta e più intima, quella provocatoria, sovversiva, radicale. A livello formale (il montaggio di Ruggero Mastroianni é incline in più d'un occasione al taglio d'accetta), contenutistico, e parastorico. Un revisionismo che scantona nell'epos finale a suon di carrellate, di piani larghi, di pragmatismi tornacontisti. Quando Mastroianni, nella campale resa dei conti, pronuncia siffatte, profetiche parole ("Chi ha vissuto per la patria...io vivo per la patria, mica so scemo, IO") l'istinto ad attualizzarne il sottotesto politico é irrefrenabile e quantomai legittimo.
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