La luna |
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Un film di Bernardo Bertolucci.
Con Jill Clayburgh, Tomas Milian, Roberto Benigni, Fred Gwynne, Matthew Barry.
continua»
Drammatico,
durata 144 min.
- Italia, USA 1979.
- VM 14 -
MYMONETRO
La luna
valutazione media:
3,04
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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L'incestuosa e lunare poesia filmica di Bertoluccidi davidestanzioneFeedback: 22976 | altri commenti e recensioni di davidestanzione |
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lunedì 23 gennaio 2012 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
L’essenza profonda de “La luna”, il primo film di Bertolucci dopo la monumentale saga Novecento e anche uno dei suoi capolavori più enigmatici, si annida nel suo affascinante e folle incipit: girandola caleidoscopica di suggestioni accumulate per eccesso, palpiti lirico-sinfonici e ridondante tessitura registica in cui la volitiva macchina da presa sonda ambienti e stanze in interni donandogli un’epica tumefatta e un’ariosa, inquietante vitalità (la stessa di Ultimo Tango a Parigi). A Bertolucci, regista nostrano che forse più di ogni altro (insieme a Marco Bellocchio) ha scandagliato le profonde (com)pulsioni della mente umana, la significazione psicanalitica del suo racconto non può di certo sfuggire. Anzi, il maestro se ne fa coraggiosamente carico. “La luna”, come tutti i film che affrontano la lacerazione di una coscienza, parte dall’assenza. Al giovane protagonista Joe manca un padre, morto, una madre che c’è ma è come se non ci fosse, una ragazza che egli dice di avere ma di fatto non ha, abbandonandosi allora alle delicate suggestioni della prima volta con un’affine e fulva coetanea, Arianna. Poco prima che i due possano annullarsi reciprocamente nell’atto sessuale però il tetto che li sovrasta si scoperchia come in un racconto fantastico. Ecco che parte la girandola cineteatrale, da cui Bertolucci dipana tutto il suo sapiente e amoroso gorgheggio cinéphile, la sua passione profonda per la celluloide e per il lato più furente, sublime e inquieto del melodramma verdiano. La luna in tutto ciò fa da poetica, sopraelevata contemplatrice distaccata, mentre si intrecciano ricordi d’infanzia e rimembranze di vecchie proiezioni (“Niagara”) e messe in scena (guarda caso proprio “Il trovatore” di Verdi). Ben presto però al voluttuoso e irreale incanto magico si sostituisce l’altrettanto ovattata crudezza di un estremo rapporto madre-figlio, fulcro tematico e narrativo del film: un rapporto violento, riottoso, lui la chiama “troia!”, la picchia, ne nasce un legame incestuoso. Col padre assente, edipicamente è l’unica soluzione possibile per annegare i laceranti contrasti. Joe cade nel tunnel dell’eroina che gli viene procurata dall’amico marocchino Mustafa, ma la dimensione del racconto non subisce mai contraccolpi o lacerazioni tali da disorientarne l’inclinazione: il piglio di Bertolucci si mantiene meravigliosamente ancorato all’evasione allegorica, che astrae e ricorre ai più smaccati simbolismi. Joe canta e balla Nightfever in una scena sensazionale e magnetica, mentre sua madre, il soprano italoamericano Jill Clayburgh continua a rivendicare l’autonomia sognante della sua anima d’artista. Inizialmente lei lo coccola, tenta di richiamargli alla memoria i ricordi più accoglienti della sua infanzia, nonostante i reciproci tormenti i due si supportano a vicenda, traendo reciproca linfa psicotica, dapprima confortandosi e poi azzannandosi selvaggiamente in un’alcove contronatura. Nella massima libertà d’espressione bertolucciana, lui le morde rapace le lette e lei lo masturba. C’è di che scandalizzarsi per i più bigotti, ma ai meno moralizzatori non sfugge l’elemento favolistico di un racconto di formazione allucinato, dolcissimo e al contempo infinitamente brutale. Un’audacia espressiva immane e ad oggi, viste le corde di involuta pochezza su cui si è assestato il nostro cinema, praticamente impossibile da trovare. All’epoca suscitò, come spesso accadeva col cinema di Bertolucci, non pochi dissensi. Oggi va obbligatoriamente riscoperto.
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