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Con Animali selvatici Cristian Mungiu fa un lavoro impressionante. E torna di nuovo la forza del cinema dell'Est europeo

Da Kira Muratova a Sergei Loznycja, abbiamo assistito nel tempo ad una storia di rapporti sofferti con il potere politico nei paesi in cui questi registi hanno lavorato. Mungiu è una delle voci più originali, più pure, più potenti. Al cinema.
di Giovanni Bogani

venerdì 7 luglio 2023 - Focus

Si chiama R.M.N., in originale, il nuovo film di Cristian Mungiu (Animali selvatici): regista ostinato, coraggioso, con un sguardo che va a fondo nel male, il male delle persone, il male che mina le società, il male di vivere. Si chiama R.M.N., che vuol dire “risonanza magnetica”: ma che evoca, irresistibilmente, anche la parola “Romania”.

Il racconto si apre in Germania. Un operaio, che lavora in un mattatoio, reagisce con violenza contro un altro. Come un calciatore che non aspetta neanche il cartellino rosso ed esce dal campo, lui lascia la fabbrica e il paese. Se ne torna in Romania, fra le montagne della Transilvania, a Ditrau. Noi, della Transilvania, sapevamo solo di Dracula. Invece scopriamo che c’è una comunità mista di rumeni, ungheresi, tedeschi, che hanno trovato da poco un faticoso equilibrio.

E adesso c’è quest’uomo che torna. C’è un figlio piccolo, otto anni, che attraversando il bosco per andare a scuola ha visto qualcosa che lo ha terrorizzato, e non parla più. C’è il padre che ha un cancro al cervello – da qui la risonanza magnetica del titolo. C’è una piccola azienda di panetteria, che per usufruire di fondi europei assume due lavoratori dallo Sri Lanka. E c’è la comunità intera, poco più di quattrocento persone, che non li vuole. E dà fondo a tutti i suoi pregiudizi. Contro gli stranieri, contro i musulmani, quelli che “vengono da noi e ci portano le malattie”, quelli che “prima vengono in due, poi portano le loro tre mogli e i loro dieci figli, e alla fine ci invadono”. Contro quelli che “prima o poi si fanno esplodere o ci investono”.

La versione più cruda del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia, dell’isolazionismo. Con un momento che evoca i giorni del Ku Klux Klan negli Stati Uniti. E in mezzo, anche il maschilismo di questo operaio, Matthias. Che, ad ogni momento, sembra poter fare violenza alle persone che ama.

E c’è una Chiesa che, nella figura del pope ortodosso, non riesce ad opporsi alla volontà della maggioranza della popolazione, e una polizia che se ne frega, e cerca di indagare il meno possibile sugli episodi di violenza.


In foto il regista Cristian Mungiu al 75° Festival di Cannes, dove ha presentato Animali selvatici. Nel 2007, il suo secondo lungometraggio, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, un affresco crudo, senza sconti, della Romania sotto il regime di Ceausescu, vinse la Palma d'Oro. 

Mungiu non si preoccupa di spiegare troppo, lascia che le cose accadano nel suo film. Non commenta con una colonna sonora, se non attraverso musiche intradiegetiche, che vengono suonate all’interno del racconto del film.

E piano piano, quella che sembrava una storia “piccola”, quella del difficile ritorno a casa di un lavoratore all’estero e della difficile integrazione di due poveracci venuti da un altro mondo, si rivela qualcosa di molto più grande. Il racconto di una Nazione intera, la Romania che diffida dell’Unione europea, che si sente assediata – “ci hanno invasi tutti, i Turchi, gli Avari, gli Unni, e ci siamo sempre difesi”, si dice in una cena – e che vuole difendersi, a ogni costo.

Pazzesca, di una bellezza tragica, la scena dell’assemblea dei cittadini che si riuniscono in chiesa, poi nel centro culturale. E ogni voce si alza, ogni voce tira fuori nuovi pregiudizi. E in fondo, ognuno ha torto: anche l’imprenditrice che sfrutta operai stranieri a salario minimo. E ha torto la gente che non compra il pane perché impastato da mani di un altro colore.

In fondo, questo minuscolo angolo di Transilvania potrebbe essere qualsiasi altra zona dell’Est europeo. O forse potremmo andare ancora più ad Ovest: il discorso “non abbiamo niente contro di loro, ma vogliamo solo che restino a casa loro” lo abbiamo sentito molte volte anche da queste parti.

In tutto questo, fa quasi tenerezza il personaggio di Matthias, incapace di comprendere del tutto le cose, di esprimersi a parole, di prendere una posizione chiara. Matthias che, nel pieno della discussione brutale in assemblea, chiede la mano alla sua amante. Per incertezza, per smarrimento. Per sentire di avere qualcuno vicino, non – per una volta almeno – per sentimento di possesso.


In foto una scena di Animali selvatici. Ancora una volta Mungiu va a fondo nel male e rappresenta la versione più cruda del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia, dell’isolazionismo.

Con questo impressionante lavoro di Mungiu – che riesce a scavare nelle radici profonde di diffidenza, di razzismo, di intolleranza, di chiusura mentale del suo paese – torna di nuovo, davanti ai nostri occhi, la forza del cinema dell’Est europeo. Di cui Mungiu è, a pieno titolo, uno dei protagonisti, una delle voci più originali, più pure, più potenti.

Una storia, quella del cinema dell’Europa orientale, che è stata molto spesso una storia di rapporti sofferti con il regime, con il potere politico nei paesi in cui questi registi hanno lavorato. Viene da pensare a Kira Muratova, regista moldava naturalizzata ucraina, che – finita nel mirino delle autorità sovietiche – si vede censurate e nascoste tutte le opere per vent’anni, dal 1966 fino al 1986 della perestrojka, il rinnovamento sociale e politico voluto da Gorbaciov.

Viene da pensare ad Andrej Tarkovskij, forse il più grande di tutti, che trovò immense difficoltà a lavorare in Unione sovietica, nonostante l’attenzione internazionale e l’entusiasmo della critica: aveva vinto il Leone d’oro a Venezia già con il primo film, L’infanzia di Ivan, nel 1962. Tarkovskij, con i suoi film simbolici, poetici, permeati da una fortissima carica di misticismo, si discostava totalmente dalla propaganda comunista. Per anni gli fu proibito di girare film. E alla fine degli anni ’80, si trovò costretto a chiedere asilo politico in Italia.

Viene da pensare ad Aleksandr Sokurov, l’autore dell’Arca russa, con il suo cinema colto, complesso, ambiguo, di sontuoso splendore figurativo. O a Krzysztof Kieslowski, il regista polacco del Decalogo, la serie di dieci film dedicati a esplorare il senso profondo dei comandamenti cristiani, che sconvolse la Mostra del cinema di Venezia del 1987 e gli spettatori del mondo intero. Kieslowski continuerà a esplorare l’inspiegabile mistero del vivere, dello stare al mondo, in film come La doppia vita di Veronica e nella trilogia composta da Film blu, Film bianco e Film rosso, in cui racconta storie estremamente concrete e allo stesso tempo estremamente metafiche, emblematiche.

Ma la storia del cinema dell’Est europeo passa dai talenti visionari e folli di Sergei Parajanov, altro autore perseguitato dal regime sovietico – finì in carcere per omosessualità –, l’autore de Il colore del melograno, costretto ad un silenzio creativo di anni. Da quello di Nikita Mikhalkov, che gira Oci ciornie con Marcello Mastroianni – l’unico autore importante a non avere avuto guai, problemi, sofferenze con il regime, al contrario: adesso è un fervente sostenitore della politica di Putin e della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina.

E non dovremmo dimenticare che due dei più importanti autori “occidentali”, Roman Polanski e Milos Forman, sono in realtà nati l’uno in Polonia e l’altro nell’allora Cecoslovacchia, dove lavorava anche Jiri Menzel. E più vicino a casa nostra, in quella che era la Jugoslavia, sbocciava l’umorismo popolare di Dusan Makavejev e, all’inizio degli anni ’80, il talento sfrenato, folle, surreale di Emir Kusturica.

E non abbiamo parlato di Sergei Loznitsa, o meglio sarebbe scrivere Loznycja, regista ucraino sessantenne, che dopo aver prefigurato le atrocità della guerra in Ucraina con il bellissimo film Donbass del 2018, premiato a Un certain regard a Cannes, adesso si schiera con i colleghi cineasti russi, vittime di una discriminazione “in base al loro passaporto e non alle loro azioni”, e si è opposto al boicottaggio dell’industria culturale russa. Loznitsa non sta con il Cremlino, eppure è stato espulso dall’Accademia del cinema ucraina.

Né abbiamo parlato di Corneliu Porumboiu, l’altro grande protagonista della nouvelle vague romena, ormai divenuta adulta. Ma abbiamo capito che il mosaico del cinema che va da Trieste agli Urali è vasto, e merita attenzione. Nell’ambito di questo complesso mosaico, quella di Mungiu è una tessera importante. 

Cristian Mungiu aveva vinto la Palma d’oro nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni. Un affresco crudo, senza sconti, della Romania sotto il regime di Ceausescu. Al centro della storia, una ragazza che vuole abortire, pratica illegale e all’epoca severamente punita. Da allora i fari dell’attenzione internazionale non si sono mai spenti per lui. Anche Oltre le colline e Un padre, una figlia hanno partecipato, in concorso, al Festival di Cannes: il primo ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura e il premio per la migliore attrice; il secondo il Premio speciale della giuria.  


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