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Loro: Toni Servillo e Paolo Sorrentino. Storia breve di un duo fedele di giganti del cinema

Sorrentino trova in Servillo una virtù che lo destabilizza, la capacità di andare oltre le sue direttive, di dominare la macchina da presa, di appropriarsi dello spazio in cui dispiega un genio che non deve tutto all’indicazione del regista. Omaggio struggente al potere del cinema, È stata la mano di Dio è la conferma di una relazione artistica prodigiosa. Ora in sala.
di Marzia Gandolfi

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mercoledì 24 novembre 2021 - Focus

Bisogna essere almeno in due per fare il cinema. Non solo perché i fratelli Lumière avevano fatto della loro dualità un requisito necessario, due è il numero minimo perché il cinema - medium collettivo e arte totale per eccellenza – esista, si riveli, esprima il suo potenziale. John Wayne e John Ford, George Cukor e Katharine Hepburn, Billy Wilder e Jack Lemmon, Martin Scorsese e Robert De Niro, Ettore Scola e Marcello Mastroianni, Sydney Pollack e Robert Redford, Pedro Almodóvar e Penélope Cruz, Tim Burton e Johnny Depp, Wes Anderson e Bill Murrayal cinema le coppie sono numerose e talvolta più fedeli che nella vita. Si formano e si riformano il tempo di un film, non sono soggette a leggi matrimoniali ed esistono soltanto davanti alla macchina da presa. Il cinema dopotutto è una piccola famiglia. Non è raro ritrovare film dopo film lo stesso team ma soprattutto la combinazione di due personalità la cui relazione si rivela per lo spettatore un autentico choc artistico. Cosa sarebbe un film di Quentin Tarantino senza le tirate semantiche di Samuel L. Jackson o il cinema di Woody Allen senza l’interloquire svagato di Diane Keaton? Cosa sarebbe “la grande bellezza” di Paolo Sorrentino senza la maschera di ‘attore antico’ di Toni Servillo?

Una maschera che a teatro riattiva le metamorfosi di Ovidio e al cinema attiva la funzione del potere. E al cinema Servillo è approdato già ‘vecchio’, scolpito dal solco profondo delle rughe e da una calvizie che allunga la maschera da cui infanzia e giovinezza sono escluse. Per questa ragione, anche per questa ragione, incarna così bene il cinema di Sorrentino, quello politico e consacrato alla mutazione dello stato italiano in dittatura post-fascista. A dieci anni di intervallo interpreta prima Giulio Andreotti (Il Divo) e poi Silvio Berlusconi (Loro). Il segno fisico del potere è la vecchiaia. Il potere è vecchio, il potere nasce vecchio, e Servillo ha interpretato tutte le forme di potere umano, dal suo esercizio frivolo, Jep Gambardella re delle feste romane (La grande bellezza), alle esplosioni di violenza mafiosa (Le conseguenze dell’amore), passando per la sua deriva ‘divina’ e onnisciente (Il Divo, Loro).

Mai un bagliore infantile rischiara lo sguardo dei suoi protagonisti. Il suo Gambardella l’infanzia la contempla da lontano, nella luce gialla di Roma, nel vagheggiamento nostalgico della sua età dell’oro e della sua innocenza impossibile. Non recita col suo corpo umano Servillo ma con una silhouette stilizzata, una maschera riconoscibile grazie al sentimento di permanenza che procura la stilizzazione. A muoversi intorno a lui sono gli altri, corpi agiti da scosse e spasmi, corpi che ballano per fuggirsi, perdersi dentro notti e feste intercambiabili. Tra loro Jep dimora immobile, battezzato con un nome tronfio e ridicolo come ogni altro personaggio di Sorrentino, rivelandone la vanità e la vacuità: Antonio Pisapia, Titta Di Girolamo… personaggi che vivono male perché sono rimasti indietro e hanno dormito gran parte della loro vita. Sorrentino con la macchina da presa sembra incoraggiarli al viaggio, a prendersi il rischio, alla ricerca di un amore o di una dignità perduta. Servillo è Gambardella e tutti i fratelli ‘sorrentiniani’ a fine corsa che si credono senza qualità e a cui l’attore infonde la tentazione dell’innocenza dietro la purezza svanita.

Paolo Sorrentino e Toni Servillo si incontrano da qualche parte tra Roma e Napoli. La complicità che li unisce risale agli anni Novanta e ha come fondo i Teatri Uniti fondati da Toni Servillo, Mario Martone e Antonio Neiwiller. Il talento e il rigore dell’attore si forgiano sul repertorio italiano, da Goldoni a Eduardo De Filippo, che continua a onorare sul palco facendosi tentare dal cinema e corteggiare da autori come Sorrentino e Garrone, narratori dell’Italia contemporanea. Ma è soprattutto col primo che condivide una complicità intellettuale, diventando l’interprete ideale del suo cinema.

Sorrentino trova in Servillo una virtù che lo destabilizza, la capacità di andare oltre le sue direttive, di dominare la macchina da presa, di appropriarsi dello spazio in cui dispiega un genio che non deve tutto all’indicazione del regista. Anche Paolo Sorrentino ha bisogno di un uomo in più. Negli anni trovano una distanza che gli conviene, un rapporto di autonomia in cui ciascuno ha evidentemente bisogno di dirsi che può lavorare senza l’altro ma è insieme che riscrivono il cinema italiano. Creano un nuovo corpo, un corpo che non è più quello di Servillo e nemmeno quello ‘storico’ di Giulio Andreotti o di Silvio Berlusconi, ma il corpo dell’idea di Andreotti e di Berlusconi ricostruita a quattro mani, un’idea che sintetizza l’assoluto del potere e il potere assoluto. Sono co-autori di una rivoluzione dello sguardo e della messa in scena. Insieme trasmettono una possibilità viva e dialettica di rappresentare il potere senza aderirvi, assumendo la maschera della maggioranza e dissolvendola allo stesso tempo con la risata eruttiva dell’opposizione, del singolo, del cittadino napoletano che Servillo incarna nel film più intimo di Paolo Sorrentino.

È stata la mano di Dio racconta una storia apparentemente più semplice, dietro ai fumi placidi del Vesuvio e della narrazione autobiografica. Per vent’anni Sorrentino dimora a Roma col suo cinema, lontano dal caos di Napoli, dalla sua vita, quella della giovinezza, su cui aveva perso il controllo. C’era un disordine a Sud che l’autore non riusciva ad afferrare in un film ma raccontare è mettere ordine nel disordine e c’è voluto del tempo, c’è voluto il suo tempo per rielaborare un lutto indicibile. La produzione gli dona carta bianca e Sorrentino torna a Napoli dopo L’uomo in più, torna ai ricordi dolci e amari dei suoi sedici anni, quando Maradona sbarca in città e i suoi genitori incontrano una fine tragica in montagna, vittime di un incidente domestico. Il film evoca quel trauma e lo trasforma in un melodramma sensibile, poi in un percorso iniziatico, quello di un giovane uomo dolente per cui l’immaginario diventa rifugio, fino a sognare di diventare regista cinematografico.


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