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A Quiet Place - Un posto tranquillo: ritorno al silenzio, ritorno all'inizio

L'horror di John Krasinski è un valido strumento per una revisione e un ricordo. Ed è un titolo benemerito, perché esegue molto bene il suo compito. Dal 5 aprile al cinema.
di Pino Farinotti

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Emily Blunt (41 anni) 23 febbraio 1983, Londra (Gran Bretagna) - Pesci. Interpreta Evelyn nel film di John Krasinski A Quiet Place - Un Posto Tranquillo.
martedì 3 aprile 2018 - Focus

A Quiet Place - Un posto tranquillo, firmato da John Krasinski, è un horror di silenzio. Certi alieni hanno invaso la terra e attaccano ogni rumore che sentono. Per sopravvivere non si deve fare nessun rumore. Una famiglia rifugiata in una casa cerca di comunicare senza suoni, e non è facile, altrimenti verrà annientata. Il film presenta molte letture. Il silenzio è una cifra decisamente importante nel cinema, che alla fine dell'ottocento nacque muto e per un trentennio continuò così. Poi, nel 1927, con lo storico Cantante di Jazz, arrivò la parola. Ma non tutti ne erano entusiasti. Il silenzio non era solo un sistema, era anche un codice, di più, era una filosofia. A Quiet Place - Un posto tranquillo può essere lo spunto per una lettura in quel senso, in quei sensi. Si parte da una testimonianza suggestiva, da un titolo, da un autore e da un'attrice che molto hanno contato: Viale del tramonto, Billy Wilder, Gloria Swanson. È il 1950, i film "parlano" da tempo. La Swanson fa se stessa, la diva del muto, William Holden è uno sceneggiatore. Quando la incontra la riconosce. "Eravate grande" le dice. Lei risponde "Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo". Poi perfeziona il concetto: "Adesso il cinema è finito, distrutto. Un tempo, col nostro mestiere, gli occhi di tutto il mondo erano stregati da noi. Ma non era sufficiente per loro, oh no!, dovevano impadronirsi anche degli orecchi. Allora aprirono le loro bocche bestiali e vomitarono parole, parole, parole...".

Sul silenzio nei film si schierò qualcun altro che conosceva bene quella disciplina, Charlie Chaplin, che continuò a fare film silenziosi fino al 1940, fino al Grande dittatore. Ma... parlò a malincuore. Così il silenzio, divenne roba da dibattito, divenne un vero e proprio affair.
Pino Farinotti

Che il silenzio non sia solo roba da storia o da studio, o da retrospettiva emerge da alcuni dati. La Sight&Sound, la testata inglese, accreditata, facente (quasi) testo, ciclicamente redige una classifica del cinema nelle epoche e nei Paesi. Stiamo ai primi dieci: (1) La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock, (2) Quarto potere (1941) di Orson Welles, (3) Viaggio a Tokyo (1953) di Yasujiro Ozu, (4) La regola del gioco (1939) di Jean Renoir, (5) Aurora (1927) di F. W. Murnau, (6) 2001:Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, (7) Sentieri selvaggi (1956) di John Ford, (8) L'uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov, (9) La passione di Giovanna d'Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer, (10) Otto e mezzo (1963) di Federico Fellini. Ebbene Aurora, Giovanna d'Arco e L'uomo con la macchina da presa sono "muti". Significa che anche nella nostra epoca il silenzio ancora si impone. La parola non ha depennato titoli-capolavoro. Con un dato che va rilevato: Dreyer riesce a fare un film senza parole su un processo, dove a contare sarebbero solo le parole. A Renée Falconetti - Giovanna bastavano gli occhi, bastava l'espressione. Ecco, quest'ultimo è un lemma importante. Perché richiama quella corrente, l'espressionismo, che merita una digressione.


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Gloria Swanson in una scena del film Viale del tramonto (1950).
In foto una scena del film Aurora (1927).
In foto una scena del film L'uomo con la macchina da presa (1929)

Il movimento, artisticamente decisivo, si sviluppò in Germania fra il 1905 e il 1930. L'espressionismo, applicato all'inizio soprattutto alle arti figurative, invase, via via, la letteratura, il teatro, e poi il cinema. Significava eccesso di espressione, nei gesti e nell'estetica, soprattutto attraverso l'uso delle luci e, ancora di più, delle ombre. Come sempre il cinema rappresentò un'evoluzione anomala e... poco ordinata, come sempre si appellò alla propria fisiologica franchigia del non rigore, perché se applichi l'eccesso di espressione solo alla scrittura o solo alla pittura o solo al teatro, allora ti muovi in confini che favoriscono una disciplina, ma se quella disciplina la porti nel cinema, devi vedertela con una gestione complicata e articolata: la musica, l'immagine, la scrittura, la parola, tutto insieme. Insomma devi far convivere, tenere a bada tutto in un eccesso, e non è facile. L'espressionismo poteva rappresentare una pratica utile e perfetta nei film muti, dove l'eccesso andava a compensare e a soccorrere la mancanza della parola. Ma col "parlato" le misure andavano pesate con grande attenzione, il confine fra un'opera d'arte di energia maggiore e un'anarchia estetica grottesca era molto sottile.

Questa forma così potente di racconto solo per immagini si pose dunque come una verità artistica integra, e quando la parola arrivò a toccarla per molti significava deturpare, stravolgere un'identità. Secondo Swanson e Chaplin, ma non solo loro.
Pino Farinotti

Una certa corrente, certo ormai sottile di ultrapuristi, magari integralisti, continuò a ritenere il cinema silenzioso la forma più alta di quella materia. La parola era solo un facile trucco, una contaminazione fastidiosa. Anche se gli ultrapuristi meritano rispetto, incoraggiati dai tre titoli "muti" superstiti, il cinema ha assunto piuttosto bene la parola. L'espressionismo venne esportato da gente di lingua tedesca, molto qualificata, autori che si erano formati a quella scuola e che, intorno al 1933, con l'avvento di Hitler -molti erano ebrei - lasciarono i loro Paesi per raggiungere Hollywood, che li accolse col rispetto che gli americani sanno mostrare davanti a una cultura superiore. I nomi erano quelli, non banali, di Lang, Wilder, Wyler, Zinneman, Preminger, Lubitsch, Siodmak, fra gli altri. La loro cultura, applicata alla vocazione spettacolare di Hollywood, compose una chimica capace di produrre opere di qualità assoluta, anche se "parlate". Anche Hitchcock emigrò a Hollywood e il suo percorso artistico è conseguenza di quel viaggio. I film americani presentano cifre spettacolari, compreso La donna che visse due volte. Ma non manca la solita corrente, magari semplicemente purista, che ritiene il periodo inglese del regista, fra il 1922 e il 29, cioè quello "silenzioso", il suo migliore. A Quiet Place - Un posto tranquillo, al di là della sua qualità, è valso come strumento per questo "ritorno all'inizio", per una revisione e un ricordo. È un titolo benemerito, ha ben eseguito il suo compito.

POSTFAZIONE
Sarebbe certamente interessante un esercizio "di silenzio". Vedere una sequenza "parlata" togliendo il suono. Propongo un episodio di Ladri di biciclette, quando Bruno, il bambino, e Antonio, il papà, sono in trattoria e hanno ordinato la mozzarella in carrozza. Negli occhi di Antonio c'è l'angoscia di non poter lavorare perché non ha la bicicletta, in quelli di Bruno l'imbarazzo dei soldi spesi per la mozzarella. Al tavolo vicino c'è seduto un altro bambino, ricco, che non ha problemi. Nel locale ci sono dei musicanti, il cantante, dalla faccia triste a sua volta, intona Tammuriata nera. Si invita l'utente a questo esperimento. Forse per la potenza visiva e di espressione di tutti e di tutto, estromesso il suono, il film De Sica diventa, si accredita e resiste come opera espressionista. Invitiamo l'utente a questa visione e attendiamo il suo riscontro.


RECENSIONE

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