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La politica degli autori: Jim Sheridan

Uno dei pochi irlandesi ad avere inciso sul cinema contemporaneo.
di Mauro Gervasini

In foto il regista Jim Sheridan.
Jim Sheridan (75 anni) 6 febbraio 1949, Dublino (Irlanda) - Acquario. Regista del film Dream House.

lunedì 2 luglio 2012 - Approfondimenti

Alla continua ricerca di frattaglie horror nei bassifondi del cinema, non potevamo lasciarci sfuggire Dream House, dal 3 agosto nelle sale, con Daniel Craig, Rachel Weisz e Naomi Watts. I coniugi Craig-Weisz (nella vita e in scena) traslocano nella casa dei loro sogni che però è infestata da inquietanti presenze e fu teatro di un orribile delitto. Come Amityville Horror (et similia), direte voi. E infatti, diciamo noi, Dream House è troppo derivativo per appassionare anche soltanto un po'. Però sorprende il nome del regista: Jim Sheridan. Sempre piaciuto Sheridan, per due motivi. È tra i pochi irlandesi ad avere minimamente inciso sul cinema contemporaneo ed è interessato alla grande narrazione, aspetto che ci interessa ancora di più. Tradotto in parole povere significa concepire una messa in scena funzionale alla storia che non ecceda in magniloquenza visiva ma neanche in retorica del racconto.

Un cineasta asciutto, mai neutrale (altra cosa che ci piace di Sheridan) capace di dialogare con le esigenze personali - diremmo pure, dato il pulpito, autoriali - senza dimenticare mai le necessità divulgative e commerciali. A ben vedere anche Dream House ha fin dal titolo un elemento ricorrente del suo cinema: la disillusione. Ovvero la presa di coscienza che tra il sogno (di una vita diversa o di una casa migliore, poco importa) e la realtà (non necessariamente horror, ma quasi) la differenza è enorme. Il suo film più personale, benché meno noto di altri da noi, è In America – Il sogno che non c'era (2002), dedicato al fratellino Frankie morto a dieci anni. Due irlandesi (Paddy Considine e Samantha Morton) insieme alle figlie si trasferiscono a New York, precisamente a Hell's Kitchen, zona tradizionalmente irish della città, in cerca di fortuna e per elaborare un lutto. Ma la certezza di un domani migliore si affievolisce di fronte alle difficoltà del quotidiano. Pur abitando come i due protagonisti negli Stati Uniti da tempo, Sheridan, nato a Dublino il 6 febbraio 1949, è legato indissolubilmente all'isola verde. Il suo titolo più celebre è Nel nome del padre (1993) storia dei "quattro di Guildford", un quartetto di irlandesi innocenti imprigionati all'indomani delle stragi dell'Ira a Londra nel 1974 e lasciati 15 anni in galera. Grazie anche alle prove di Daniel Day-Lewis (Gerry Conlon), Pete Postlethwaite (suo padre Giuseppe) e Emma Thompson (l'avvocato che infine li scagionerà) il film riesce ad avere un'eco enorme in Gran Bretagna ed è un notevole successo in tutto il mondo. Ancora meglio il successivo The Boxer (1997), sempre con Day-Lewis, pugile che non ha fatto la spia ed è finito in galera, ma quando esce cerca di vivere in un quartiere repubblicano di Belfast rifiutando qualunque prossimità anche formale con simpatizzanti e militanti dell'Ira, e finendo per questo nei guai. Un'opera intensa e coinvolgente, scritta con Terry George (poi regista di Hotel Rwanda), che da giovane passò più di un guaio per la partecipazione ai Troubles nordirlandesi.

La carriera americana di Sheridan è invece deludente. Forse perché preceduto da una fama di autore "europeo" gli viene affidata la realizzazione di Brothers (2009), da una sceneggiatura di David Benioff ispirata a Non desiderare la donna d'altri di Susanne Bier. La storia è quella di un reduce Usa dato per morto (Tobey Maguire) che torna a casa devastato dal rimorso e trova la moglie (Natalie Portman) insieme al fratello (Jake Gyllenhaal), considerato da tutti un poco di buono. Incapace di contenere le performance degli interpreti, e incerto sulla strada espressiva da tenere (troppo impostato e meccanico per essere un bel mélo) il film purtroppo non convince.

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