Mia madre

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Un film di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini (I), Stefano Abbati.
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Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 106 min. - Italia, Francia, Germania 2015. - 01 Distribution uscita giovedì 16 aprile 2015. MYMONETRO Mia madre * * * 1/2 - valutazione media: 3,62 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

moretti corale Valutazione 4 stelle su cinque

di pepito1948


Feedback: 125 | altri commenti e recensioni di pepito1948
giovedì 30 aprile 2015

Sta invecchiando, Moretti. Non in senso deteriore, tutt’altro. Arrivato alla soglia di un’età in cui la morte, non tanto la propria quanto quella della cerchia delle persone care, diventa realtà con cui fare i conti, Moretti, oltre a scavare a tutta benna nella sua essenza identitaria ( e di chi, come molti di noi, guarda in faccia senza filtri i propri triboli, dubbi, incertezze e talora ripensamenti accumulati in un vissuto pieno di chiaro-scuri in perenne miscelamento), sente il bisogno di una nuova comunicazione grandangolare di sé, rompendo il rigido schema del rapporto diretto tra l’io magmatico ma unico che si racconta e il mondo che riceve la sua rappresentazione filmica.
Moretti si mette da parte, ai lati della “storia”, quasi osservatore più che attore, assume uno sguardo discreto ed assorto, si dà il ruolo di uomo temprato dal peso delle esperienze, di paziente consigliere, di pensatore riflessivo su ciò che fu ed è, ciò che gli altri sono, sul suo ambiente dei cui sapori assortiti si è fatto recettore mai a suo completo agio, su un mondo in perenne dissintonia con il suo. Si muove lentamente, come forse la sua vita degli ultimi tempi in decelerazione, parla filosofeggiando ma lontano dalla oralità retorica che ha sempre aborrito, guardando sotto le maschere le altre personificazioni del sé passate e presenti.
Moretti si scinde nei suoi personaggi per far comprendere meglio le componenti caotiche di sé, i suoi pensieri (auto)critici, dando una rappresentazione in certo senso “corale” del Moretti narratore, utilizzando il linguaggio cinematografico di cui sa di essere maestro seguendo due piani narrativi: la messinscena invisibile del regista che offre ai nostri occhi il prodotto complessivo e quella in cui, abbattendo ogni parete, ambienta la scena del set in fieri immettendo lo sguardo diretto dello spettatore nella finzione filmica, nel suo divenire, in cui i personaggi principali sono in qualche modo sue propaggini espressive e, in ultima analisi, simboliche.
Per contrasto dispensa dall’alto della sua maggiore vita suggerimenti, spunti orientativi alla sorella regista di un film in cui il cerchio non si chiude mai, qualcosa resta sempre di incompiuto o comunque di migliorabile, di perfettibile. La donna freme, smania, gira intorno ad un equilibrio che non trova mai (e forse non vuole rimanervi incastrata), alla ricerca vana di una proposizione di sè all’altezza delle proprie aspettative. Moretti stempera, leviga e argina ciò che è sempre stato, ma nello stesso tempo (si) comprende affettuosamente, giustifica e simpatizza per chi non si adegua, indulge verso guizzi di narcisismo estemporaneo e forse rimpiange di non essere stato frenato da chi gli è stato vicino nei momenti di crisi di autocontrollo.
Moretti aborrisce la razionalità lineare dei benpensanti, la consequenzialità fredda ed inesorabile –anche se spesso sponda ai debordi dell’istintualità-  come quell’analisi logica che ha dato una nobile motivazione alla permanenza del latino nell’insegnamento scolastico, e che dà forma alla risposta alla domanda fatidica della nipote : a che serve?
Moretti mette in scena, estremizzando, anche il suo sentirsi istrione maldestro, irregolare, simpatico ma “altro”, un po’ bizzarro nel suo essere “fuori”, tra sbalzi di umore ed inceppamenti comportamentali. Come l’attore americano che nel cast è minoranza (di comunicazione, di temperamento, di estraneità rispetto alla compattezza del cast) che impazza ostentando sicurezza (ma trasudando fragilità) e sempre in bilico tra il serio ed il goffamente ridicolo, tra scene drammatiche ed esilaranti situazioni in cui, davanti al pubblico potenziale (le telecamere fissate su di lui installate davanti al parabrezza della macchina), la disinvoltura cede all’imbarazzo.
Moretti si mette a nudo non rinunciando a flagellarsi nello stigmatizzare il proprio egocentrismo (nella reprimenda che mette in bocca all’ex amante della sorella nei confronti di questa), giocando (e talora spiazzando)  sulle mutanti identificazioni con i personaggi-cloni, con atteggiamento di umile autocritica, così come nel confronto tra la sua fortuna di libero professionista che si può permettere di licenziarsi a sua discrezione e gli operai che, nella finzione filmica diretta dalla sorella, sono vittime indifese del cinismo aggressivo del potere. Il che lascia intravedere una quasi urticante inadeguatezza nel riconoscersi nell’aura di grandezza in cui il successo lo ha spinto. Nello stesso tempo non rinuncia ad esprimersi in modo severo verso il suo ambiente, il cinema di oggi, in cui nulla è veramente autentico, manca sempre quel tocco di genuinità che fa sì che il cinema si ponga come credibile “mediatore che si colloca tra la realtà e la sua percezione” (S. Stourdze).
In tutto questo immanente è l’ombra della morte, non più idea ma realtà prossima. L’avvicinarsi dell’evento, che per gradi si trasforma da possibilità a certezza, se apparentemente non incide sul secondo livello della storia (il set di Margherita), impronta il presente dei due fratelli alle prese con la malattia della madre di un senso di smarrimento, di svuotamento, di senso di perdita delle radici che provoca diverse reazioni: dolorosa presa d’atto e tendenza all’annullamento, che tuttavia coincidono come doppio nella stessa identità. Moretti è l’uno e l’altro, vorrebbe piangere quando la morte arriva ma si rappresenta in questo modo attraverso la bambina, gioca con la sorella/alter ego con il tempo in varie direzioni, ricordando, sognando, anticipando (vedi gli scatoloni) in un contesto narrativo generale in cui ci dice che nella dimensione intima, emotiva il tempo si fa variabile strumentalmente elastica: per elaborare un lutto ineluttabile, per dare senso al nostro percorso selezionando pensieri e azioni, per prepararci alle decisioni che si vanno profilando.
Moretti ci manifesta la sua stanchezza. Ha un che di profetico la sua volontà di smettere definitivamente di lavorare annunciata ad un incredulo datore di lavoro, ed è questa l’unica nota di inquietudine che stride  nel subbuglio di sensazioni che ci accompagnano mentre defluiamo dalla sala.
Ci si chiede quale sia il tema del film: l’inadeguatezza  in una realtà liquida  in cui l’unica via di fuga è il rifugiarsi nella solida certezza delle proprie paure e i propri limiti, lo smarrimento davanti all’approssimarsi della morte e dei suoi stimoli detonanti, il decadimento del mondo cinematografico ecc. Tanti altri se ne potrebbero indicare, e sarebbero forse appropriati. Ma di fondo Mia Madre è un film sull’uomo come matassa di infinite fibre di esistenza interiore, mutabile ed impossibile da cogliere unitariamente, ma che pochi, come Moretti, sanno rappresentare per immagini attraverso l’uso sapiente e creativo dei mezzi espressivi a disposizione (come la scissione dei sè ed i piani temporali), con l’aiuto essenziale di un cast perfetto in ogni componente e la capacità di toccare le corde in(de)finite della nostra sensibilità.
Un film straordinario e di alta maturità, definibile sul piano emotivo  “a banda larga” , perfetto stilisticamente e impreziosito da citazioni significative, come i tempi aulici del Capranichetta con le sue lunghe file ed il manifesto di un film di Wenders, evidentemente considerato da Moretti molto vicino per tematiche e profondità di indagine umana.

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