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The Best of 2023: 12 mesi di grandi film. In attesa di vedere gli imperdibili dell'anno 2024

Da Oppenheimer a C'è ancora domani, da Anche io a Rapito, ecco le opere che hanno segnato l'anno che sta per finire: film che bisogna vedere e recuperare, per chi vede ma sa anche guardare. 
di Giancarlo Zappoli

sabato 30 dicembre 2023 - News

“Un film dovrebbe dire al suo pubblico: ti amo, ti desidero, voglio essere tuo”.
Bernardo Bertolucci

In questo 2023 non sono mancati i film che hanno desiderato un pubblico e da questo sono stati desiderati. Ci sono stati quelli che hanno ricevuto un consenso che potremmo definire universale e quelli che hanno sussurrato la loro voglia di appartenenza a un numero più ristretto di spettatori. I media oggi sono così diversificati che consentono il prolungamento di questa ricerca di relazione anche oltre la sala, che resta il luogo primario della consumazione del rapporto. Proponiamo così una selezione, suddivisa per mesi di uscita, che vede 12 film (più un tredicesimo in ex aequo) che mostrano e dimostrano come il cinema resti ancora un mezzo capace di offrire una molteplicità di stimoli che, andando dall’intrattenimento all’essai, possono tenere accesi i neuroni di chi non solo vede ma sa anche guardare. In attesa di vedere gli imperdibili film del 2024.

GENNAIO
ANCHE IO di Maria Schrader
Il caso Weinstein ha occupato a lungo le pagine dei giornali e i servizi televisivi ma occorreva un film che facesse sintesi e sapesse offrire con sensibilità al pubblico più ampio possibile le tappe della genesi di un’inchiesta che ha cambiato profondamente il mondo dello spettacolo e non solo. Era necessario però uno sguardo femminile che sapesse far percepire la violenza senza il voyeurismo di chi pensa che solo l’evidenza possa provocare una reazione. Se il genere in cui si muove è (e non poteva essere altrimenti) quello del giornalismo d’inchiesta, lo stile è quello necessario a un film in cui ci si collochi in una posizione che rifiuta il sensazionalismo avendo come obiettivo il mettersi al servizio di chi quegli abusi li ha subiti nel corpo e nell’animo. Tutto ciò avvalendosi dell’atroce realtà delle vere dichiarazioni del produttore. Schrader è consapevole che sono più che sufficienti.

FEBBRAIO
LAGGIÙ QUALCUNO MI AMA di Mario Martone
A settant’anni dalla sua nascita ci viene proposto un ritratto di Troisi che si avvale di diversi materiali inediti messi a disposizione da Anna Pavignano che di Massimo è stata compagna nella vita privata così come nella professione. Non si tratta però di un documentario dal carattere agiografico anche perché a dirigerlo è un regista che non solo è napoletano ma fa dell’ammirazione che prova per il collega lo strumento per indagare in profondità nel suo animo. Ci viene proposto ovviamente il ‘comico’ Troisi ma, nel procedere della narrazione, ci si accorge quanto il senso della precarietà dell’esistenza (a causa della cardiopatia) ne pervadesse l’opera anche quando ‘laggiù’ si proponeva a un pubblico di tutte le generazioni in grado di cogliere la sottigliezza di ogni battuta. Martone sa anche, con estrema delicatezza, affrontare il sentimento amoroso e la lettura, in cui humour e malinconia  si fondevano, che Massimo sapeva offrirne al proprio ampio pubblico. In fondo Massimo lo aveva dichiarato: credeva fosse amore. Invece…

MARZO
L'ULTIMA NOTTE DI AMORE di Andrea Di Stefano
La riscossa del cinema di genere dell’anno può essere rappresentata da questo film che rappresenta il modello di film che mette in crisi il critico. Non per il suo valore, che è più che elevato, ma per il fatto che qualsiasi elemento del plot venga preso in esame, incipit a parte, cade inevitabilmente nello spoiler. Di Stefano ha saputo collocare l’ultima notte di servizio di un poliziotto, che si vanta di non avere mai sparato, in un contesto che ha studiato a fondo. A partire da quel volo su una Milano notturna, raramente fotografata con così grande efficacia produttiva di senso, per passare poi al sottile confine tra legalità e crimine. Per descrivere i quali si percepisce che il lavoro di conoscenza e collaborazione con la polizia e con la comunità cinese, che vive ed opera alla luce del sole nella metropoli lombarda, è stato accurato e ricco di suggestioni.  C’è poi un Favino che non ha certo fatto mancare la sua presenza sugli schermi quest’anno ma che qui tocca il vertice dell’adesione al personaggio affidatogli.


In foto una scena di L'ultima notte di amore.

APRILE
MEDITERRANEAN FEVER di Maha Haj
Waleed, un neoscrittore in depressione e Jalal,un vicino di casa non precisamente ideale, partono da una sensazione di reciproca non sopportazione per poi passare a cercare di conoscersi meglio. Come può un plot di base come questo aiutarci a capire un po’ di più la situazione che dal 7 ottobre coinvolge israeliani e palestinesi? Può perché Maha Haj, alla sua seconda regia, sa come raccontare il privato quale sensore di quei massimi sistemi che solo la saggistica storica sembrano poter descrivere in modo circostanziato. Il suo è un cinema che trova nella città di Haifa, nel cui distretto vive e lavora una numerosa comunità palestinese, il giusto scenario. Senza fare proclami Haj pone in rilievo alcuni tratti di una cultura che ama essendo figlia di genitori araboisraeliani e lo prova, in alcune scene, mostrandoci di aver fatto proprio l’amore per la commedia e il surreale di Elia Suleiman di cui è stata scenografa. La descrizione di un’amicizia maschile che si sviluppa in quel preciso contesto finisce con il dare concretezza al titolo che, non a caso, fa riferimento a una temperatura non di carattere meteorologico.

MAGGIO
RAPITO di Marco Bellocchio
Dopo aver conquistato, con un tema non facile come quello del sequestro di Aldo Moro, il pubblico televisivo con Esterno Notte, Bellocchio si volge al passato per raccontare la vicenda del rapimento del piccolo Edgardo Mortara sottratto alla sua famiglia ebrea in quanto battezzato. L’ordine arriva, siamo nel 1858, dall’ultimo Papa Re, Pio IX. Bellocchio torna ad affrontare la figura del Pontefice. Nella serie era Paolo VI con il suo tormento di amico nei confronti dello statista mentre qui abbiamo un mellifluo uomo di Chiesa convinto assertore del proprio potere che sintetizza nell’affermazione ‘non possumus’. Bellocchio rielabora quello che è stato sempre uno dei nodi della sua espressione cinematografica: il rapporto con la Chiesa vista come forma di potere. Lo fa con la sontuosità dei riti cattolici opposta all’intimità della fede ebraica così come si esprime nell’alveo familiare. È anche però consapevole del fatto che oggi sul soglio di Pietro siede un papa che è distante anni luce da quel suo predecessore. Con la sagacia di un Maestro qual è ci comunica questa consapevolezza nella scena dell’udienza agli esponenti della comunità ebraica. La doppia citazione de “La civiltà cattolica” non è casuale.

GIUGNO
FALCON LAKE di Charlotte Le Bon
Non si può certo affermare che questa opera prima abbia ottenuto un riscontro considerevole al box office ma è proprio per questo che merita di essere recuperata alla visione di un pubblico più ampio. Avendo come base la graphic novel “Una sorella” di Bastien Vivès il film di Le Bon affrontando l’analisi delle dinamiche preadolescenziali ci ricorda che chi sta attraversando quella fase della vita necessita di riti iniziatici che certifichino l’abbandono dell’infanzia. Cosa c’è di meglio del confrontarsi con elementi che creino paura? In questa storia di schermaglie amorose tra il ‘quasi quattordicenne’ Bastien e la sedicenne Chloé l’horror progressivamente si insinua con un taglio che però si distanzia nella maniera più totale dallo stereotipo di tanti film made in Usa in cui adolescenti ingenui e spesso fracassoni vengono fatti a pezzi da esseri malvagi. Qui è Chloé che, rifacendosi a una leggenda locale, introduce il sovrannaturale in una vacanza ai bordi di un lago nel Quebec. Tenerezza e senso dell’ignoto abitano lo sguardo di una regista che ha la sensibilità giusta per tradurli in immagini e suoni.

LUGLIO
UNA DONNA CHIAMATA MAIXABEL di Iciar Bollaín
Non è un film ‘nuovo’ quello della regista madrilena. Risale al 2021 ma solo quest’anno è arrivato sui nostri schermi. Meglio tardi che mai verrebbe da dire perché Bollain, che ne è anche cosceneggiatrice, è riuscita a tenere insieme il dato storico-politico con i molteplici aspetti di una situazione a dir poco complessa. Non era facile narrare la scelta, da parte di una vedova di un politico ucciso da terroristi baschi, di accettare di incontrare uno degli esecutori dell’omicidio. Maixabel sente crescere in sé la consapevolezza di non potere restare abbarbicata al proprio dolore aprendosi alla conoscenza di chi quel dolore lo ha causato. Bollaín sa come leggere il suo tormento e quelli di chi le sta intorno. A partire dalla figlia ora divenuta a sua volta madre che non comprende le motivazioni del suo agire per arrivare al contesto dei compagni di partito del marito che leggono in quella decisione non un atto di coraggio ma una resa. L’uso della parola contro quello della violenza diventa il segnale di una possibile soluzione dei conflitti. Esposto senza retorica e con intensa partecipazione anche emotiva.
 


In foto una scena di Una donna chiamata Maixabel.

AGOSTO
OPPENHEIMER di Christopher Nolan
Oppenheimer. Chi era costui? La manzoniana domanda ha sicuramente attraversato il pensiero di più d’uno di coloro che però poi hanno affollato le sale per conoscere chi fosse. Utilizzando la lente filtrante di un Autore come Nolan per nulla avvezzo al biopic ma in grado di saper piegare alla propria visione estetico-narrativa anche questo genere. Il regista londinese sa come sfruttare al massimo tutta la tecnologia che le sale più avanzate possono offrire al suo lavoro. Effetti speciali sì ma artigianali, interpretazioni ad altissimo livello immerse in una fotografia che conosce ogni minuzia del mestiere. Tutto questo messo al servizio di una messe di dettagli e di personaggi che potrebbero disorientare lo spettatore e qualche volta lo fanno. Ma nonostante questo (o forse proprio per questo) la fascinazione si compie e il passaparola si realizza nei confronti della vita non di un esploratore o di un condottiero ma di uno scienziato che ha contribuito in maniera determinante a realizzare il più devastante strumento di morte che la Storia abbia finora conosciuto. Il potere del Cinema è talvolta imperscrutabile.

SETTEMBRE
L'INVENZIONE DELLA NEVE di Vittorio Moroni
Ci volevano la sensibilità di un regista come Moroni (che già aveva affrontato nel suo lungometraggio d’esordio Tu devi essere il lupo il rapporto genitore-figlio) e la straordinaria prova di attrice di Elena Gigliotti per rendere con straziante partecipazione questa storia. Cioè quella di Carmen, una madre che vuole con tutte le sue forze essere tale anche quando oggettivamente non è in grado di ricoprire il delicato ruolo. In un film che inizia con una favola veniamo condotti quasi per mano in una vicenda in cui una madre e un padre si contendono una figlia. Una storia come tante e come tante se ne sono viste sullo schermo? No, perché raramente si sono sapute cogliere senza mai cadere nella facile commozione o nell’esasperazione fine a se stessa, le sfumature di una personalità complessa e dolente come quella della protagonista che vorrebbe che loro tre stessero insieme ‘come fossero felici’.

OTTOBRE
L'ULTIMA VOLTA CHE SIAMO STATI BAMBINI di Claudio Bisio
C'È ANCORA DOMANI di Paola Cortellesi
Un’ex aequo in questo mese si presenta come doveroso. Due attori affermati e noti soprattutto per le loro prestazioni nel campo della comicità e della commedia affrontano per la prima volta il passaggio dietro la macchina da presa. Lo fanno con due storie che raccontano il passato per guardare al presente. L’uno con un trio di bambini in cammino per salvarne un quarto durante la seconda guerra mondiale. L’altra con la figura di una moglie e madre vessata da un marito padrone ma mai domata e capace di guardare avanti. Bisio sa mettersi ad altezza di bambino non solo con la camera ma con il sentimento, senza mai dimenticare la lezione del grande cinema che ci ricorda che  un sorriso può precedere una lacrima. Cortellesi con la consapevolezza di dirigere se stessa e un cast tutto all’altezza in una storia di dignità femminile impossibile da conculcare. Entrambi capaci di arrivare dritti al cuore e alla mente degli spettatori.

 


In foto una scena di The Old Oak.

NOVEMBRE
THE OLD OAK di Ken Loach
Questa volta sembra che sia vero: questo è l’ultimo film che la ‘vecchia quercia’ che risponde al nome di Ken Loach dirige. Se, purtroppo, sarà così bisogna dire che si tratta davvero di un addio che lascia il segno. Questa volta Ken e il suo sodale, da innumerevoli anni e film, Paul Laverty hanno portato sullo schermo una vicenda che ci ricorda come il gioco preferito da chi detiene le leve del potere economico sia quello di mettere gli ultimi gli uni contro gli altri. Nel paese del Nordest britannico in cui è ambientata la vicenda la chiusura delle miniere ha portato l’indigenza. L’arrivo di profughi siriani scatena l’invidia (solo apparentemente assurda) di chi ha poco nei confronti di chi non ha più nulla. Ogni aiuto a costoro viene vissuto come sottratto a se stessi. Loach ci racconta una storia che ha al centro chi porta avanti con fatica l’unico pub rimasto aperto e una ragazza mediorientale appassionata di fotografia. Nel recente passato (vedi Sorry We Missed You) ci aveva sprofondato nella disperazione del quotidiano. Questa volta ci offre la possibilità di una speranza che non ha nulla però dell’happy end made in Usa.

DICEMBRE
IL MAESTRO GIARDINIERE di Paul Schrader
Ha lo stesso cognome della regista di Anche io ma tra loro non sussistono legami di parentela. Legami che invece sono sempre presenti tra i personaggi che Schrader porta sullo schermo. La sua formazione calvinista lo spinge ad analizzare personalità che del senso della colpa e del necessario, ma non semplice, processo di redenzione diventano soggetti drammaticamente e drammaturgicamente consapevoli. Come il giardiniere Narvel Roth che si vede affidare la tutela di un’orfana non facile mentre deve risolvere i propri conflitti interiori occultati allo sguardo altrui. Schrader è un maestro nel non disdegnare gli elementi simbolici (il giardino ad esempio si chiama Gracewood) senza però sottolinearne la presenza, lasciando che un’apparente semplicità narrativa dia loro significato. I suoi sono film che chiedono uno sguardo non superficiale, una capacità di andare oltre alla vita nella sua quotidianità per risalire al vissuto che ognuno si porta dentro.


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